Mondo senza tempo: e se Einstein fosse vissuto ai tempi del coronavirus?

Il tempo e il pensiero sono quei concetti universali che sembrano camminare sulla stessa rima. Appare, infatti, chiaro come entrambi non incontrino limiti, né ostacoli, né barriere di sorta. Mentre il tempo è una dimensione, vuoi o non vuoi illusoria, insita nella sfera dell’eternità cosmica, il pensiero nasce con la comparsa dell’uomo sulla terra e quel flusso della mente umana sembra perpetuarsi, o riverberarsi, al di là dell’attimo vitale, nella totalità di quelle forze energetiche che organizzano la struttura assai complessa dell’infinità dello spazio.
In questa personale lettura di semplice approccio alla nostra condizione di uomini, forse voluta da un disegno divino, nel momento assai particolare che stiamo vivendo, tutti, ma proprio tutti, di ogni età, di ogni razza, di ogni credo religioso e livello di cultura, ci ritroviamo incasellati, costretti, ingabbiati, in una specie di limbo, anime inquiete nel lago dell’attesa di una “fase 2” che non è una fase lunare, ma un tempo non ben definito secondo le… lune del nostro apparato scientifico, economico e politico.
Il tempo è fermo, là fuori. Svolazzano dalle finestre le bandiere tricolori ormai stinte, si illuminano le frange degli alberi col sole del “primo vere”, non una voce mattutina nel deserto immobile delle strade, unico suono di vita i telefoni che squillano dopo le pigre nottate di un “aprile dolce dormire”. Le provvide massaie lasciano le tiepide lenzuola fuori della finestra, inconsapevoli della forte carica di energia esercitata dal vento. Sarà una sorta di sanificazione, che potrà regalare nottate più serene, affidate solo ai sogni, immemori di quel nemico che, fuori casa, ci attende con subdola perfidia per mascherarci la faccia in un estemporaneo carnevale veneziano. La sola speranza, unico appello, ci dà la forza di non demordere.
Possiamo capovolgere la metaforica clessidra nel tentativo di misurare le ore, ma il domani e il dopodomani saranno uguali, troppo uguali a un oggi che non ha senso, che sembra non esistere. Una chitarra che suona nel deserto di una piazza diffonde le sue note cristalline sul selciato, sui muri secchi avari di piogge non piovute, sui tetti di cemento sgretolato delle periferie, nelle orecchie di quanti non hanno più lacrime da piangere per aver perduto figli, parenti, amici, e di quanti invece, sciacalli del coronavirus, gongolano nell’insperato profitto del momento.
Ci accomuna la condivisione, ma il panico serpeggia nel corpo e nel cervello in una situazione di finta serenità, guardandoci l’un l’altro con circospezione in fila nei pochi esercizi commerciali rimasti aperti. L’accaparramento del cibo gratifica la privazione tanto prolungata del contatto fisico. Le case profumano di ragù, di dolci, di leccornie e chicche prelibate sperimentate per provare il nuovo, frastornati e rimpinguati come oche all’ingrasso.
La linguaccia di Einstein
Viene talmente spontaneo chiedersi se Albert Einstein si stia rivoltando nella tomba nella visione di cosa sta accadendo su questo globo terracqueo globalizzato nella tragedia. Forse direbbe: “ve lo avevo detto“. L’ex impiegato dell’ufficio Brevetti di Ulma, per ritrovare la sua libertà se ne fuggì a Princeton negli Usa, lontano da quella Germania che, con la comparsa di un paranoico Hitler, lo aveva preso sott’occhio non solamente per le sue origini ebraiche, ma per i suoi ben dichiarati proclami ideologici. Una volta negli Usa, Einstein aveva informato il presidente Roosevelt che la Germania si apprestava alla costruzione di un’arma micidiale di distruzione di massa, la bomba all’idrogeno, molto più potente di quella che aveva distrutto Hiroshima, col rischio di una morte universale. Ma, pur in questa sua intromissione in questioni militari, quale fervente
pacifista aveva sottoscritto numerosi appelli contro le guerre nucleari.
Vale la pena ricordare il suo testamento spirituale affidato a Bertrand Russell, amico di tante battaglie, che lo rese pubblico negli ultimi giorni della vita del genio (1955). Da questo, ci piace estrapolare una frase emblematica di Einstein: “Dobbiamo imparare a pensare in una maniera nuova“. Ebbene, oggi nel 2020 è quanto ci stiamo dicendo.
In questo necessario preambolo, andiamo a chiederci come avrebbe reagito il nostro genio se fosse vissuto ai nostri giorni. Il 18 aprile ricorre il 65° anniversario della morte del grande fisico, avvenuta il 18 aprile del 1955 all’età di 76 anni. Sembra lecito interrogarsi su come avrebbe potuto darci una mano in questa guerra del tutto inusuale, dove il nemico non è una bomba ma qualcosa di simile e assai diverso? Forse, col suo noto senso dell’humour, faccia a faccia con quel maledetto batterio, avrebbe tirato fuori la lingua nella sua famosa boccaccia.
L’isolamento, cui noi siamo ora sottoposti, non era una situazione che avrebbe potuto spaventarlo, dedicato com’era ad elaborare le sue formule sulla relatività. Che avrebbe detto, cosa avrebbe fatto per aiutarci a combattere il nemico invisibile, quale ricetta avrebbe rimuginato in quel suo cervello? Quello stesso cervello, alla sua morte, fu vilmente rubato e consegnato ai posteri per amore di notorietà, dissezionato in vari barattoli da Thomas Harvey, l’anatomo-patologo il quale, da minuziosi esami durante l’autopsia, poté riscontrarne certe caratteristiche veramente peculiari sulle quali non è il caso di soffermarci, ma che si rivelarono una conoscenza assai preziosa per gli studiosi del cervello umano.
“Ogni giorno sappiamo di più e capiamo di meno“, recita uno dei tanti aforismi di Einstein. Se fosse vissuto ai nostri giorni, si sarebbe servito dei cellulari, delle App, di Skype? Probabilmente sì, ma con molta parsimonia, severo in certe sue regole e talvolta pedante nel trascrivere sui suoi taccuini tutte quelle minuziosità e notizie professionali, in cui la scarsezza di memoria non gli era di soccorso. Pare che fosse nato dislessico o, quantomeno, autistico. Non se ne hanno notizie sicure. E vedi un po’ il genio in quali cervelli può trovare terreno di sviluppo.
Dal tempo fermo delle nostre giornate allo spazio-tempo di Einstein, ci sta. Una volta finita l’emergenza saremo costretti a pensare in una maniera nuova, proiettati in un mondo talmente diverso da prima, in cui la téchne aristotelica sarà lo strumento utile per attivarci nelle più varie produzioni legate all’industria, al turismo che non vuole morire, all’arte che ci vivifica, in queste città ora sparite nella macchina immobile del tempo.