In memoria del “giudice ragazzino”

di Mirko Tomasino
Nel 1994 gli fecero un film intitolato con lo stesso appellativo con cui Francesco Cossiga, ai tempi Capo dello Stato, lo indicò in maniera dispregiativa e offensiva. Il “giudice ragazzino”. Adesso, sono trascorsi ben ventuno anni dalla morte di Rosario Livatino, trentottenne giudice agrigentino, apripista della famosa Tangentopoli siciliana (ben due anni prima dei “soloni” della Procura di Milano, Di Pietro e soci) e dei rapporti di Cosa Nostra con l’economia e la politica siciliana.
Il 21 settembre del 1990 il giovane Livatino, sostituto procuratore della Repubblica ad Agrigento, fu ucciso dai sicari della “Stidda”, organizzazione criminale siciliana, ai tempi in competizione con Cosa Nostra.
Sul personaggio del giudice, figura mite e bonaria in un contesto professionale fatto di sciacalli e lupi, si è creata una sorta di mito sacro fatto di apparizioni (in sogno) del magistrato il quale ha curato diversi soggetti in stati patologici avanzati.
Proprio il 21 settembre 2011, in seguito a questi “miracoli” eseguiti dal defunto giudice, si è aperto il suo processo di beatificazione.
Di Rosario Livatino si ricorda soprattutto la discrezione. Al pari di colleghi come Falcone e Borsellino non calcò mai i palcoscenici dei media, ne sottopose la sua figura apprezzata di magistrato antimafia ai calderoni della politica e del potere, ma lavorò in sordina spendendo la sua vita per la lotta alla mafia.
Adesso, si diventa “famosi” per molto meno e con una grande differenza. Servire il proprio Paese sembra essere divenuto un vero optional.