Stiamo carnevalizzando il Pride

Sono anni che gli sponsor del Roma Pride fanno discutere ma oggi, con il genocidio dichiarato nella Striscia di Gaza, la presenza di alcuni brand alleati di Israele fa discutere ma non quanto dovrebbe. Al di là della contestabile scelta di accettare Starbucks e ancor peggio Deloitte nella lista degli sponsor di base, c’è una questione che va maggiormente sottolineata: se il Pride si svuota della sua valenza politica, se si svuota degli ideali anticapitalisti, antigovernativi, antirazzisti e di tutta quella rabbia che nel giugno del 1969 ha spinto centinaia di persone a scendere per la prima volta nelle strade in segno di protesta e
in segno di presenza, cosa rimane? Rimane poco, inutile negarlo.
Sono anni che la comunità queer ha depotenziato gradualmente la sua visione politica e la sua pratica di lotta transfemminista, finendo per diventare, volente o nolente, una costola del capitalismo stesso. Sono anni ormai che si abbraccia quel principio propriamente neoliberale secondo cui ogni nostra azione rivolta al profitto è parte dell’interesse generale: non si tratta più di riflettere sugli obiettivi, ma di realizzarli nel modo più efficiente possibile. Persino le Drag Queen, storicamente le nostre più potenti guerriere in tema di diritti, si sono trasformate in luccicanti soprammobili, in abili ammaliatrici e in docili mediatrici.
Sono anni che guardo le Drag Queen sui carri del Roma Pride accanto a vari esponenti politici, che
scendono in piazza per farsi tre foto, quattro risate e alzare qualche zero virgola, e non
capisco più la lotta in cosa si sia trasformata. Inutile dire che oggi guardo queste decadenti
guerriere con la stessa curiosità con cui ascolto un’elettrice del Partito Democratico chiedere
la fine del patriarcato. Il Roma Pride, così come la maggior parte dei suoi partecipanti, non
riesce più a concepire l’abbattimento del capitalismo come questione primaria, perché ne
condivide, come abbiamo visto anche sopra, alcune direttive ideologiche.
Queste manifestazioni, in breve, possono sicuramente farsi sovversive, ma mai trasformative,
proprio per la loro incapacità di leggersi come parte del problema. Va sottolineato che la causa Palestinese, senza dimenticare che è arrivata nel Roma Pride solo a favore di telecamera (vi ricordate tutta questa attenzione prima dell’ottobre del 2023?), è imprescindibile allo spirito del Pride stesso, come dovrebbero esserlo a dirla tutta le uccisioni di massa in Sudan, le violentissime repressioni nel Myanmar e via dicendo.
Ma per avere due parole, un piccolo spazio e qualche bandiera qui e là bisogna aspettare che i
mass media puntino le telecamere: l’attenzione e la sensibilità, in questo mondo e con la politica della comunità attuale, ha un prezzo e un tempo ben preciso. La presenza al Roma Pride non va messa in discussione. Ciò che va messo in discussione e contestato, anche all’interno della parata stessa, come molte realtà, piccole ma presenti, già fanno, è tutto il contorno. A che prezzo stiamo carnevalizzando il Pride? A che prezzo stiamo aprendo il nostro spazio di contestazione e chi quest’espressione la porta avanti?
Articolo a cura di Diego De Nardo