Il fuoco che ti porti dentro, alla scoperta dell’ultimo libro di Antonio Franchini
Conoscere veramente una persona non è possibile, a meno che non si provi a raccontarla come il personaggio di un romanzo, servendosi dell’immaginazione per andare oltre i confini della realtà.
E così ha fatto Antonio Franchini con sua madre Angela, protagonista del suo ultimo libro, Il fuoco che ti porti dentro, edito da Marsilio.
Franchini – tra i più importanti editor italiani – durante la sua lunga carriera in Mondadori, ha scoperto scrittori come Paolo Giordano e Roberto Saviano.
Non solo uno scopritore di talenti, ma un vero e proprio mentore, capace di guidare gli autori e di ricavare il meglio dalle loro opere.
Da nove anni è direttore editoriale della casa editrice Giunti e, divenuto famoso nel mondo dell’editoria per il suo lavoro dietro le quinte, si è affermato nel corso del tempo anche come autore, a testimonianza della sua “bidimensionalità” in campo letterario.
Il fuoco che ti porti dentro, racconta la vita di una donna, figlia di una generazione che ha murato dentro di sé il proprio dolore.
Lei e il suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta; lei che porta dentro un fuoco, alimentato dall’odio, dai suoi pensieri, dalle sue ossessioni, dalla rabbia che nasce dal senso d’inferiorità e dall’inadeguatezza .Non conosce molto ma non apprezza nulla, se non il cibo, necessità e piacere, aspirazione e sogno.
Spesso sono futili motivi che eccitano la sua furia. Per incendiare tutto le basta solo aggiustare la legna nel fuoco perenne che la divora.
Da Napoli si è trasferita al Nord, perché, come scrive l’autore, “il destino ha spesso il talento di predisporre le cose nel modo peggiore”.
Averla come vicina di casa significa per lui vivere accanto a un vulcano e quando passa sotto le sue persiane la immagina combattere con i suoi fantasmi e con i rifiuti della sua mente, che poi gli servirà il giorno seguente insieme al caffè.
Ed è proprio a Milano che Angela “teorizza l’opposizione tra Nord e Sud”, sposando il pensiero di chi sostiene che la società italiana sia un mondo di piccole patrie.
Franchini si serve di una sineddoche per denunciare i mali che affliggono il nostro paese. La madre che incarna in blocco tutti gli orrori dell’Italia: “il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore”.
Già nel romanzo L’Abusivo, in cui racconta l’omicidio del giovane giornalista Giancarlo Siani da parte della camorra, il suo intento era quello di mostrare come certi meccanismi di violenza, di sopraffazione, di amoralità fossero latenti nelle relazioni private della società meridionale, anche borghese, prima ancora che nella criminalità organizzata.
E se è vero che la letteratura è come un laboratorio fotografico, in cui è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e loro sfumature, grazie alla scrittura perfetta di Franchini, ci vengono restituite immagini iconiche della nostra Italia:
“E chissà che cosa sogna, quando le palpebre gli cadono nel sonno breve dei vecchi, se vengono a visitarlo i morti i cui ritratti si affacciano in una serie di ovali aperti nella cornice allungata di velluto nero che pende di fianco al letto vicino alla sua parte, greve ornamento di luttuosità barocca, residuo di quel tempo in cui gli sposi non si curavano che i talami riflettessero i moniti sulla caducità suggeriti dalle immagini di santi, Madonne e antenati piuttosto che la leggiadria carnale degli imenei”.
Franchini si pone delle domande, le stesse che si porrà anche il lettore: quale vuoto Angela deve colmare con i suoi vaniloqui? Quale voce che le urla dentro deve tacitare? Chi le ha attaccato questo male?
Spinto da questi interrogativi, cerca delle risposte e per farlo si serve di questo romanzo, contenitore di ricordi relativi alla sua famiglia e alla sua città natale, Napoli.
Solo alla fine, quando Angela è sempre più vicina alla morte, l’odio sembra tramutarsi in un sentimento diverso, più simile all’amore, perché l’unica verità è che “passa ’a vita e nun ce n’accurgimmo”.
Articolo a cura di Alessandro Zimatore