“Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway” di Matteo Nucci è un invito alla ricerca della grazia umana

“Se un prosatore sa bene di cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte”. È la teoria dell’iceberg di Ernest Hemingway: spiegare come solo un ottavo di una storia debba effettivamente essere mostrata mentre i setti ottavi rimanenti, i più importanti, rimangono nascosti.
Matteo Nucci compie un ragionamento simile nel suo Sognava i leoni. L’eroismo fragile di Ernest Hemingway, edito da HarperCollins (2024), fregiandosi del difficile compito di offrire nuova linfa vitale ad un autore (e un insieme di opere) perseguitati dalla continua necessità di essere osservati da ogni lato, aperti e riaperti fino all’esaurimento di ogni possibile curiosità.
L’autore è conscio di questo rischio ma non sembra temere il confronto, mosso forse dall’intestina consapevolezza che possiede chi sa muoversi egregiamente fra la pila di nozioni a disposizione.
È un libro che racconta “una vita di ricerca”, guidando per mano il lettore nell’analisi non tanto biografica dell’autore quanto piuttosto nel modo di approcciarsi ad una scrittura quanto mai carica e debitrice di storie personali.
Fondamentale diviene soprattutto il metodo utilizzato da Nucci che preferisce muoversi quasi secondo un approccio da studente, unendo suggestioni di ogni genere per far emergere l’uomo-Hemingway prima ancora che l’autore.
L’imminenza della fine
Sono sufficienti poche pagine per trovare il fulcro dell’intera ricerca: il tentativo di scardinare un’immagine forse quanto mai arcaica di Hemingway che lo vorrebbe statuario di fronte alle sfide della vita, virile nel modo in cui espone la lotta fra Eros e Thanatos, preferendogli piuttosto un ritratto più vivo e caleidoscopico.
L’Hemingway descritto dall’autore è profondo e pieno di contraddizioni, rappresentato per molti aspetti quasi come un elemento naturale a se stante, legato ai vari personaggi che si muovono nelle sue vicinanze e spinto verso un preponderante anelito per la natura.
Nucci, nel titolo “Eroismo fragile”, richiama temi arcaici, riproponendoli nella sua analisi di parole come “pietà” o “grazia”, introducendoli con rispetto e deviando anche dal proseguimento dell’analisi pur di spiegare la scelta terminologica.
È il caso di grace, la grazia, forse la meno prevedibile nell’arsenale di termini dell’autore, vista come prettamente legata al mondo femminile ma in grado, secondo Nucci, di accompagnare invece sia chi legge sia chi scrive nell’arduo compito di affrontare “l’imminenza della fine”.
“Perché è nel momento del dolore e della sofferenza […], che l’essere umano mostra tutto ciò che ha imparato nella sua breve vita”.
È questo che Hemingway cerca di fare: illuminare la via per affrontare il buio percorso umano che ogni singolo soggetto, consapevolmente o meno, deve affrontare.
È successivo il consigliare questo testo a chi desidera trovare consigli di scrittura da un simile autore che ha fatto della memoria la sua principale alleata, sia nelle prime interviste della sua carriera da giornalista sia nella sua spasmodica ricerca di dettagli durante le lunghe estati passate a guardare le corse con i tori in Spagna.
Non dire, non rilevare, omettere
Non dire, non rivelare, omettere. Questo è il monito dell’autore, quasi riservato nel suo metodo di studio e conscio di come sia difficile poter fornire nella scrittura un singolo punto di vista condivisibile da tutti, preferendogli un’analisi dettagliata e distaccata degli eventi presentati. Hemingway è fotografico nel suo modo di descrivere gli eventi e Matteo Nucci si trova davanti all’arduo compito di dirigere un’operazione a cuore aperto per opere che già sono passate sotto i ferri, ferite nel loro esser state relegate a una letteratura troppo rigida per contenerle.
Nuovamente il mondo antico viene in aiuto e l’autore trova nel sapere greco (l’aoristo di orao, oida) la chiave di volta per la sua lettura dello scrittore americano; nell’affermare “io conosco perché ho visto”, vi è l’intera esperienza di scrittura che, in qualche modo, riesce a legare i due soggetti.
La conoscenza, sia percettiva sia mentale, spinge a ricercare un Oltre che può solo partire da qualcosa di sensibile. Hemingway viene visto come uno scrittore-spugna in grado di impregnarsi di sensazioni, parole ed esperienze che non possono fare a meno di trapelare nelle sue storie e nelle sue domande.
Matteo Nucci ha cercato di sbrogliare lo sguardo sul mondo di un autore che fin dalla sua prima pubblicazione ha dovuto ricercare costantemente una consapevolezza interiore che difficilmente è incasellabile.
“Riposati bene, uccellino. Poi vai e rischia quel che devi rischiare come qualsiasi uomo o uccello o pesce”, Matteo Nucci ha letto e amato Hemingway ma non ha cercato di renderlo suo, piuttosto ha tentato di fare il contrario, ripercorrendo i passi di un autore così legato alla vita da volerne conoscere ogni possibile aspetto.