L’Iraq contemporaneo e la sua difficile interpretazione
Iraq significa “terra tra due fiumi” e questo già può suggerirci una certa ambiguità o natura non unitaria dello Stato in questione. Per molti ciò si trasforma in fragilità.
È scorretto però parlare dell’Iraq guardando solo alla sua instabilità e debolezza, vedendolo solo come la deriva incompiuta del sogno inglese nel primo dopoguerra.
Bisogna andare oltre, puntando sulle molte altre sfaccettature dello stato iracheno, sulla la varietà di comunità che costellano il territorio.
Tale è proprio l’obiettivo della ricostruzione musiva intitolata L’Iraq contemporaneo, curata da Riccardo Redaelli, professore di Storia e istituzioni dell’Asia a Milano, e arricchita dal contributo di moltissimi altri studiosi.
Comprendere l’Iraq: oltre l’instabilità
L’itinerario dell’opera incomincia dall’Iraq tardo ottomano, analizzando poi quello indipendente e la monarchia hashemita, il cui rovesciamento si completò nel 1958, per mezzo di un colpo di Stato. Si passa poi alla rottura con l’Occidente e la nascita della Repubblica, ai turbolenti ultimi decenni del Novecento, fino ad arrivare al 2003, anno della disastrosa invasione anglo-americana, ed ai giorni nostri.
Già dall’introduzione del volume, emerge la decisione di ripudiare la visione dell’Iraq come mera vittima della rapacità coloniale. Tale retorica porta molti a parlare di un Iraq artificiale, inventato dagli inglesi per rispondere ai propri interessi e da essi ottenuto con il mandato della Società delle Nazioni, nel 1920.
Come sempre, le narrazioni prevalenti sono dominate dallo sguardo limitato eurocentrico ed il risultato è l’idea di uno stato senza nazionalità, finto, debole.
Nell’opera si sottolinea perciò il bisogno di recuperare l’Iraq storico, quello del VII secolo a.C., la regione fra Tigri e Eufrate, culla dell’immenso e variopinto centro islamico di Baghdad.
Per raggiungere tale scopo, lo scenario geopolitico e quello etnico-religioso non sono sufficienti. In questo l’opera L’Iraq contemporaneo risulta unica, con il suo focus finale sull’arte e archeologia irachene. Come a dimostrare che l’analisi di uno Stato è incompleta, se limitata alla scienza politica ed ai rapporti diplomatici: bisogna studiare le forme espressive delle società che lo abitano.
Il difficile nation-building
La Repubblica del 1958 diede vita ad un generale isolamento regionale e internazionale dell’Iraq. La situazione peggiorò in maniera sanguinosa, con l’arrivo al potere del partito socialista panarabo del Ba’th e poi di Saddam Hussein, alla fine degli anni Sessanta.
La costruzione della nazione irachena, da quel momento in poi, divenne estremamente difficile, per colpa dell’avvicendarsi di una serie di momenti: la questione dei Curdi nella regione del Mosul; l’invasione del Kuwait nel 1990 e la successiva Guerra del Golfo, che distrusse gran parte dell’apparato infrastrutturale iracheno e portò alle pesanti sanzioni da parte dell’ONU; la contesa di Shatt al-Arab, emblema della storica rivalità con l’Iran; la catastrofe del 2003, conseguenza degli attacchi di Al-Qāʿida del 9/11 e infine i numerosi altri conflitti civili, aggravati dalla presenza dell’organizzazione terroristica di Stato Islamico.
Troppi eventi dal peso immane, in un arco di tempo piuttosto breve. L’Iraq cerca tutt’oggi di definirsi ed essere riconosciuto come un attore valido. Come spiega lo stesso Redaelli però, si tratta di un’ambizione ancora lontana dal realizzarsi.
I principali colpevoli sono le scelte operate dallo stesso governo iracheno: il consociativismo, l’atteggiamento patrimonialista e la volontaria insubordinazione alla fantomatica protezione estera.