“Selfite”, dipendenza dal selfie, potrebbe essere un’autentica malattia mentale
Comparso come scherzo, il termine “selfite”, è l’oggetto di un primo studio con una scala di valutazione dei sintomi.
Nel 2014, il sito americano satirico di informazioni Snopes fece ridere pubblicando un articolo che spiegava molto seriamente che l’American Psychiatric Association, organismo di classificazione delle malattie mentali di riferimento nel mondo, aveva incluso “selfite” (“selfitis”, in VO), la dipendenza da selfie, nel suo ampio catalogo di disturbi mentali.
Nel momento in cui la stampa generalista stava ancora scoprendo la democratizzazione del narcisismo online con occhi spaventati, lo scherzo era particolarmente ben riuscito. Tranne che ora siamo nel 2018, e la storia recente ci ha dimostrato che la realtà è purtroppo in linea con le più assurde previsioni: la “selfite” è appena entrata, per davvero, nel grande corpus del psichiatria.
Il 29 novembre2017 , l’International Journal of Mental Health and Addiction ha pubblicato il lavoro di due ricercatori, Janarthanan Balakrishnan e Mark D. Griffiths, che si sono concentrati sui comportamenti di dipendenza legati alla fotografia di autoritratti. Conclusione: secondo i due ricercatori, “selfite” è in realtà un disturbo mentale che può essere identificato e persino quantificato: lo studio propone anche una prima “scala di valutazione di selfite”, in modo che tutti possano autodiagnosticarsi e determinare la gravità dei sintomi.
Tre livelli di “selfite”, venti criteri di valutazione.
Dopo varie indagini, i due ricercatori hanno definito tre livelli di gravità della “selfite”: borderline, per le persone che si scattano almeno tre foto al giorno ma non le pubblicano sui social network; acuto, quando i selfie finiscono su Internet, e cronico, che si traduce in un irrefrenabile bisogno di fotografarsi tutto il giorno, pubblicando almeno sei ritratti al giorno.
Per quanto riguarda la griglia di valutazione, consiste di venti frasi, da valutare da 1 a 5 , considerando 5 = completamente d’accordo e 1 = la frase non ti riguarda. Più alto è il tuo punteggio, più è probabile che diventi sei affetto da “selfite” (secondo i risultati dei ricercatori, il 40% degli intervistati è stato classificato come “acuto”, il 34% in “borderline” e il 25% in “cronico”). Eccoci:
1. Prendere selfie mi dà la piacevole impressione di godermi al meglio il mio ambiente.
2. Condividere i miei selfie mi crea una sensazione di sana competizione con i miei amici e colleghi.
3. Ottengo molta attenzione condividendo i miei selfie sui social network.
4. Farmi dei selfie mi permette di ridurre il livello di stress.
5. Quando mi faccio un selfie sento fiducia in me stesso
6. I miei gruppi sociali di riferimento mi accettano di più quando scatto selfie e li condivido sui social network.
7. Mi esprimo meglio nel mio ambiente attraverso i selfie.
8. Scattare selfie in diverse occasioni aumenta il mio status sociale.
9. Mi sento più popolare quando pubblico i miei selfie sui social network.
10. Scattare più selfie migliora il mio umore e mi fa sentire felice.
11. Divento più positivo con me stesso quando mi scatto selfie.
12. Attraverso i post dei miei selfie, divento un membro importante del mio gruppo sociale.
13. Scattare selfie consente di conservare ricordi migliori del momento e dell’esperienza.
14. Inserisco spesso selfie per avere “Mi piace” e commenti sui social network.
15. Pubblicando i selfie, mi aspetto che i miei amici mi apprezzino.
16. Fare selfie cambia immediatamente il mio umore.
17. Scatto ulteriori selfie, che guardo in privato per aumentare la mia autostima.
18. Quando non faccio selfie, mi sento distaccato dal mio gruppo sociale.
19. Prendo i selfie come fossero trofei dei ricordi futuri.
20. Uso gli strumenti di modifica per migliorare i miei selfie e apparire più bello o bella degli altri.
Un primo studio, ma senza classificazione.
Più avanti nello studio, i due ricercatori non possono evitare la trappola della tautologia e sostengono che “quelli che mostrano la sindrome soffrono di mancanza di fiducia in se stessi e cercano di “adattarsi “a coloro che stanno intorno a loro, e ciò può causare loro di mostrare sintomi simili ai comportamenti di potenziale dipendenza “, cosa che sembra ovvia anche ad uno psicologo improvvisato.
Tuttavia, se è appropriato trattare questo studio con il distacco che merita dal punto di vista scientifico – non dimenticando alcune debolezze che i ricercatori stessi riconoscono , in particolare il fatto di basarsi sull’autovalutazione dei soggetti -, rimane comunque uno dei primi studi a focalizzarsi sul selfie come comportamento di dipendenza . Ma ciò che non è abbastanza (ancora) per rendere la “selfite” un disordine riconosciuto dalla professione.
In effetti, le cose non sono così semplici, come ricorda Insider: affinchè una pratica sia riconosciuta ufficialmente come un disturbo mentale, deve apparire quantomeno in un studio di riferimento, pubblicato Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) della American Psychiatric Association. D’altra parte, è estremamente difficile differenziare la pratica eccessiva dal comportamento di dipendenza, e la differenza può essere fatta solo formando un grande corpo di studi validati dalla peer-review. In altre parole, il trattamento per “selfite” non è pronto per essere rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale!