Il Soffici “europeo” dell’anteguerra
Una mostra di studio che accosta il Soffici pittore al Soffici critico e scopritore di nuove correnti artistiche. Fino all’8 gennaio 2017, alla Gallerie degli Uffizi. www.gallerieuffizimostre.it.
FIRENZE – In quel primo scorcio di Novecento l’Italia umbertina sopravviveva a se stessa, con la ferita di Adua ancora fresca e una vita intellettuale ancora lontana dalla scena europea più avanzata, in particolare nel settore delle arti figurative, dove regnava incontrastata la lezione dei Macchiaioli, esteticamente irreprensibile ma ormai non più innovativa. Unica eccezione, il Divisionismo di Segantini e Previati, che si avvicinava al Simbolismo tedesco.
A destabilizzare questo quadro francamente provinciale, contribuì in modo significativo Ardengo Soffici (1879-1964), che dalla natia Rignano sull’Arno si trasferì a Firenze ancora bambino, dove, adolescente, frequentò la Libera Scuola del Nudo, e da assiduo visitatore delle mostre presso la Galleria degli Uffizi, ebbe modo di entrare in contatto con l’arte italiana ed europea di quegli anni. Fu per suo merito che in Italia il grande pubblico poté conoscere gli Impressionisti, così come Cézanne, Rousseau, e l’avanguardia cubista, attraverso un’intensa attività di saggista per le riviste fiorentine, e di curatore di mostre.
A questa importante attività di Soffici è dedicata Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze, curata da Vincenzo Farinella e Nadia Marchioni, e che prende le mosse dal volume pubblicato dallo stesso Soffici nel 1919 per i tipi di Vallecchi, Scoperte e massacri. Scritti sull’arte, che raccoglie buona parte dei saggi scritti per La Voce, che all’epoca era la palestra dell’ambiente intellettuale e artistico fiorentino e non solo.
Anni difficili, quell’inizio di Novecento, con l’Europa attraversata da un’ondata d’angoscia e di violenza: a morire, in quell’ultimo scorcio di Ottocento, non fu soltanto Dio, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche; nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità, o almeno la società occidentale.
La crisi spirituale della fine dell’Ottocento vide l’Europa a una svolta cruciale della sua storia, incalzata da un lato dal progresso tecnologico e scientifico – sono di questo periodo, ad esempio, le teorie di fisica quantistica di Planck che apriranno la strada alla teoria della relatività di Einstein, così come l’automobile, i cibi in scatola, il telefono -, e da un clima politico particolarmente caldo dall’altro; un viscerale antisemitismo serpeggia nel Vecchio Continente, rinverdito dall’affaire Dreyfus, la politica colonialista assoggetta senza scrupoli i continenti asiatico e africano, mentre le inimicizie dei secolari Imperi Centrali danno fuoco alle polveri nella regione balcanica.
In poche parole, si stanno gettando le basi per quell’instabilità politica e sociale che segnerà il secolo successivo. I popoli, a loro volta stretti fra la propaganda nazionalista, le inquietanti meraviglie del progresso, e i venti di guerra, presagiscono in confuso la fine di un’epoca.
Prima ancora che con la guerra, la rottura con il passato la si avvertì nelle avanguardie artistiche. Soffici si trovò a suo agio in questo clima su cui aleggiava lo spirito del Superuomo, ma vi arrivò per gradi, partendo dal Divisionismo di Segantini e da una memorabile mostra, la Festa dell’Arte e dei Fiori, che si tenne agli Uffizi nell’inverno fra il 1896 e il 1897. È questo il punto di partenza della mostra odierna, che attraverso le sue undici sezioni ripercorre la parabola di Soffici quale critico e scopritore dell’avanguardia europea. In quel lontano dicembre del 1896, il giovane Soffici fu letteralmente folgorato dalla pittura di Giovanni Segantini, esponente del Simbolismo “naturalista” italiano, quanto di più avanzato ci fosse all’epoca nel Paese a livello artistico.
A Firenze si può ammirare, in prestito da Budapest, il monumentale L’angelo della vita (1894-95), che rileggevano in una suggestiva chiave simbolista i motivi agresti di Millet e Courbet. Segantini unisce la tradizione quattrocentesca della Madonna in trono con quella delle moderne stampe giapponesi, e realizza una madre con bambino di sicuro impatto emotivo, sospeso fra dimensione reale e dimensione onirica.
La mostra fiorentina rappresentò un potente stimolo per il giovane Soffici, che quattro anni più tardi si reca a Parigi, allora capitale mondiale dell’arte, dove rimarrà, con brevi intervalli in patria, fino al 1907; un soggiorno fondamentale per la sua crescita intellettuale e artistica; lavora come illustratore e saggista per importanti riviste quali L’Assiette au Beurre e L’Europe artiste, ma soprattutto ha la possibilità di conoscere personalmente intellettuali e artisti quali Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso e Max Jacob, e i connazionali Emilio Notte, Mario Calderoni e Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini; e di ammirare le oepre degli Impressionisti e di Cézanne. La mostra fiorentina ci offre un bell’autoritratto a carboncino del Soffici di quegli anni, accigliato e scapigliato, dallo sguardo duro e i lineamenti forti, orgogliosamente toscani.
Accanto a un’interessante selezione di riviste dell’epoca con cui Soffici collaborò, spiccano le sue prime prove pittoriche dove appare evidente la lezione del primo Cézanne (Mamma Egle, 1904), e del gruppo dei Nabis, con gli sgargianti colori e le forme “primitive” dei bozzetti campestri. Si tratta di pitture che vanno a cozzare fortemente con la tradizione del naturalismo italiano ancora predominante, e accreditano Soffici quale artista “di rottura”, più vicino a Maurice Denis o Puvis de Chavannes che a Borrani o Fattori (almeno per il momento).
Particolarmente interessante la sezione dedicata a Cézanne, che per Soffici costituì il primo incontro con l’avanguardia; su di lui, scrisse un ampio saggio che mandò a Papini per la rivista senese Vita e Arte, dove ne ripercorse gli inizi in seno alla corrente impressionista fino all’evoluzione stilistica che precorre il Cubismo. Pagine che identificano Soffici come un critico di razza, attento agli sviluppi dell’arte europea, che sa cogliere e inquadrare nella retrospettiva della storia dell’arte; uno scritto fondamentale per l’introduzione in Italia dell’artista provenzale che segnò in profondità la pittura sofficiana.
La mostra fiorentina propone, fra gli altri, i delicati Tazza e piatto di ciliegie (1890 ca.), e Paesaggio provenzale (1900-4), acquerelli su carta che rivelano l’approccio attrattivo di Cézanne, che tanto impressionò Soffici, che dimostrò di aver appresa la lezione nel poetico e “genuino” La raccolta delle olive (1908), che unisce il tema agreste tipico di Millet (e della tradizione toscana) a uno stile più ardito in linea con Cézanne, appunto. Il prevalere dei toni scuri conferisce alla tela un’atavica solennità, propria del mondo contadino, mentre il costruire i volumi degli alberi e delle figure umane contrapponendo pennellate chiare e scure conferisce al quadro una potente modernità.
Nel 1909, Soffici si è ormai stabilito in Toscana (ma tornerà a Parigi anche negli anni seguenti, seppur per brevi soggiorni), completamente assorbito dal clima delle avanguardie, e come quelle insofferente al provincialismo della vetusta Italia umbertina. Al punto da criticare violentemente una tela del norvegese Peder Severin Krøyer, Sera d’estate sulla spiaggia di Skagen (1899), esposta quell’anno alla Biennale di Venezia e particolarmente lodata dai critici italiani.
L’articolo è da intendersi come un’aperta polemica contro l’ambiente paludato e conservatore della critica d’arte nazionale, così come delle grandi mostre, colpevoli a suo dire di non dare spazio alle giovani generazioni di artisti (nel 1905, Picasso era stato invitato, ed espulso pochi giorno dopo, per la “non conformità” dei suoi Giocolieri).
A incontrare l’approvazione del focoso toscano, furono gli Impressionisti, da lui già conosciuti a Parigi, e il loro precursore Courbet, per i quali nel 1910 organizzò e curò a Firenze, nei locali del Lyceum, la “Prima mostra dell’Impressionismo” in Italia, ma inquadrò la corrente non tanto in ottica storicista, quanto in un’ottica che esaltasse la sua importanza per la pittura moderna, grazie agli studi sulla luce e sui colori.
Accanto ai pittori d’Oltralpe, la mostra vede anche la sorprendente presenza dello scultore Medardo Rosso, profondamente ammirato da Soffici, e da lui difeso dalle critiche mosse da Ugo Ojetti; accanto alle splendide tele di Pissarro, Renoir, Lautrec, i bronzi di Medardo Rosso ricostruiscono il sentire artistico del Soffici di quegli anni, desideroso di valorizzare i giovani talenti italiani, e di far conoscere le correnti francesi.
Su questa china, scrisse un acuto saggio per La Voce, dedicato a Henry Rousseau, e nelle cui pagine descrisse con fervore la semplicità della sua pittura, quel mondo strano e fantastico che paragona a quello di Paolo Uccello. A documentare l’influenza che il Doganiere ebbe su Soffici, una Natura morta (1939), copia fedele di un’altra da lui acquistata direttamente da Rousseau, a Parigi. A suo modo commovente, anche i due ritratti a matita realizzati a fine Ottocento da un contadino di Poggio a Caiano soprannominato “il Fuffa”, e che Soffici acquistò dopo il 1910; testimoniano quell’interesse per l’arte semplice, al limite “dell’idiota”, che anticipa l’Art Brut e che colpì Soffici dopo la “folgorazione” di Rousseau.
Centrale, nella carriera critica di Soffici, la scoperta del Cubismo, cui dedicò un saggio uscito sulle pagine de La Voce il 7 dicembre del 1911, dove descrive Picasso “un maestro non solo dell’avvenire”, una frase che dimostra la competenza artistica di Soffici. Oltre a un collage di Picasso e a una natura morta di Braque, agli Uffizi si possono ammirare le prove cubiste dello stesso Soffici, Mendicante e Piani e linee di una donna che si pettina, esempi di cubismo analitico entrambi del 1912. Non solo al presente guardava Soffici, capace di riscoprire la modernità di El Greco, vissuto tra il Cinquecento e il Seicento e molto attivo in Spagna, e di cui Soffici ammirava in particolare il suggestivo uso del colore, dei grigi “pietrosi” come dei rossi “smorti” e dei gialli “acerbi”.
Quello della Biennale del 1909 non fu l’unico “massacro critico” di Soffici, che reagì con pari asprezza contro il Manifesto Futurista, parodiato su La Voce nell’aprile di quell’anno, e per il quale, poco tempo dopo, subì un’aggressione fisica alle Giubbe Rosse, da parte degli aderenti al gruppo. Un rapporto tuttavia equivoco, quello fra loro e il gruppo della Voce, che vide l’ammirazione dei Futuristi per le difese prese nei confronti di Medardo Rosso, e più tardi vedrà Soffici fare causa comune con essi sul fronte interventista.
Accanto a Carrà e Boccioni, anche Soffici produsse alcune tele futuriste, tuttavia molto vicine al Cubismo. Siamo nel 1913, a soli ventiquattro mesi dalla Grande Guerra, e il clima culturale è ormai euforico, incandescente, sono lontanissimi gli anni dei Macchiaioli, adesso furoreggia la modernità, la sperimentazione, la rottura ad ogni costo con il passato, inteso anche a livello politico. Non casualmente, i Futuristi fanno tutti o quasi parte del Fascio Interventista.
Ed eccoci, a quel fatale 1914, quando nell’imminenza della guerra, si avverte come una stagione si stia per chiudere. Questa sensazione, Soffici la esterna nel ciclo di tempere murali che realizzò per la residenza di Papini a Bulciano (e qui visibili insieme dopo molti anni); c’è di tutto, in quei pannelli dai forti colori, dal Cubismo al Futurismo, dall’Art Brut all’arte africana, un’immensa e infinita danza di figure, forme e colori, un’ultima ubriacatura prima che gli appelli all’intervento lanciati da Lacerba (fondata da Soffici nel 1913) abbiano il loro effetto.
Ed ecco l’epilogo di questa fiorente stagione: nel 1919 la guerra è finita, un milione e mezzo di italiani sono tornati dal fronte malati o mutilati, seicentocinquantamila sono morti in trincea, la “vittoria mutilata” suona come uno sfregio ai combattenti; in sostanza, l’ardore guerriero dei giovani del 1915 si è spento sul Carso, la loro giovinezza, per chi è tornato, ne è stata violentemente segnata.
A suo modo lo è anche Soffici, che cerca nella pittura un’impossibile ritorno al “prima”, e lo fa dedicandosi alla riscoperta dei Primitivi senesi del Trecento, e del naturalismo di Fattori. La quiete che avvolge la Casa a Poggio a Caiano (1920-21) – affiancata anche dalla contemporanea versione di Ottone Rosai -, sembra testimoniare proprio la necessità, soprattutto interiore, di ordine e di pace. Di lì a poco, la Storia prenderà un altro corso, ma il “ritorno all’ordine” di Soffici costituirà una stagione importante della sua produzione matura.
La mostra fiorentina si presta a una doppia lettura, estetica e critica, e che fa luce sulle competenze di Soffici quale critico d’arte, capacità non scontata per un artista. È quindi leggibile la figura di Soffici quale conoscitore e interprete delle correnti dell’arte europea a lui contemporanea, documentata dalla presenza di numerose opere di artisti stranieri e non, da lui ammirati. Una mostra di studio, che fa luce indirettamente su un periodo affascinante e controverso della storia europea.