Lino Selvatico, poeta della sensualità

Nell’opera del grande e misconosciuto pittore padovano, la poesia e la bellezza del corpo e della mente femminile. Alla Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, fino al 31 luglio 2016. www.capesaro.visitmuve.it

VENEZIA – Uno sguardo muliebre sprizzante intelligenza e passione, una luce color di miele che avvolge emozioni e pensieri, una pennellata morbida e avvolgente. È questa l’essenza di una pittura che si fa specchio di un’epoca storica e sociale particolarmente esaltante, l’ultimo fuoco d’artificio prima del baratro. Che, a rievocarla oggi, appare un’epoca leggendaria, e per certi versi lo è stata davvero: fra il 1880 e il 1914, la Belle Époque è stata l’ultimo bagliore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia europee, che ancora godevano di quei secolari privilegi di casta, maggiorati alla ricchezza economica generata dagli investimenti industriali. Il progresso tecnico e scientifico, di cui beneficiava l’Europa, inclinò a un generale ottimismo nella capacità della scienza di risolvere delicate questioni di carattere sanitario, tecnico, persino sociale, istillando una generale euforia che trovava puntuale soddisfazione nei padiglioni delle numerose Esposizioni Universali. Su queste premesse (che in retrospettiva si riveleranno particolarmente fragili), Belle Époque, dove l’estetica sembrò prendere il sopravvento sulla realtà quotidiana e per dimenticare la crisi economica e la recente guerra franco-prussiana, l’aristocrazia e l’alta borghesia europee si gettarono nei piaceri del lusso e del divertimento, seguite, anzi probabilmente precedute, dagli artisti, Gautier e Baudelaire in primis. Delusi dall’esperienza della ribellione romantica, poeti, pittori, musicisti, si danno all’estetica pura, e quando si tocca la realtà più cruda, lo si fa per fissare, nella creazione artistica, il piacere. Nobili e borghesi, tutti insieme sotto le luci della vita cittadina, resa ebbra dalle nuove scoperte tecnologiche quanto dal teatro e dai caffè aperti tutta la notte.
Il padovano Lino Selvatico (1872-1924), è esponente discreto dell’ultimo scorcio di quegli anni folli, probabilmente irripetibili nella storia umana. Formatosi in quel Veneto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento su cui ancora spira il vento della Mitteleuropa, Selvatico, a dispetto del cognome, frequenta con attenzione quell’aristocrazia fin de siècle che anima il salotto intellettuale tenuto dalla sua famiglia. Il padre Riccardo, fu uno dei promotori della Biennale di Venezia, dove il figlio esporrà con successo in numerose edizioni. Avrebbe dovuto dedicarsi alla carriera forense, ma attorno ai vent’anni abbandonò gli studi di legge a Padova, per divenire allievo di Cesare Laurenti, sviluppando però una sua personale sensibilità artistica, che lo vide, nel 1899, esordire alla Biennale di Venezia.
Sulla scia che già fu di Reynolds, Selvatico comprende l’importanza, anche economica, della committenza borghese e aristocratica, smaniosa d’immortalare sé stessa. Ritrattista esperto, Selvatico s’inserisce nella corrente di genere che al momento imperversava sulle Venezie, e che guardava con interesse al poetico romanticismo di Whistler, così come dell’incisore franco armeno Edgar Chahine, segno evidente del clima multiculturale di quell’area, ben lontano dall’accademico “richiamo all’antico” della pittura storicista. Per questa ragione, l’esperienza del Nordest italiano porterà interessanti cambiamenti anche nel resto d’Italia, in particolare a Firenze, quando i vari Marchig, Mauroner, Cainelli, vi giungeranno da esuli negli anni della Grande Guerra.
Al pari di Boldini, che a Parigi assurge al rango di ritrattista ufficiale della nobiltà e dell’alta borghesia cittadina, anche Selvatico, uomo colto e mondano, ricoprendo analogo ruolo nella Venezia e nella Milano dell’epoca, pur dedicandosi anche al mondo “altro” dell’infanzia e dei più poveri, in questo dimostrando una certa vocazione al naturalismo di fine Ottocento, reso popolare dai Macchiaioli.
La mostra veneziana, curata da Elisabetta Barisoni, si concentra sui dipinti che hanno la donna quale soggetto principale, ma che lo fu non soltanto nella mostra, bensì anche nella produzione artistica di Selvatico. Bambina, ragazza, donna, madre, amante. Una bellezza esaltata dalla sobria eleganza degli abiti, di cui selvatico trasferisce sulla tela la morbidezza avvolgente della seta e dei broccati, dei nastri e delle piume. Abiti che divengono scrigni preziosi di corpi splendidi. E sempre, raffinato suggello di bellezza, quello sguardo penetrante, sospeso fra indagine e sogno, che caratterizza ognuna delle donne ritratte da Selvatico. Per usare un’espressione idiomatica parigina, le sue donne “ont du chien”, ovvero possiedono quell’ineffabile fascino che è intelligenza, forza, e fragilità insieme. Caratteristiche che lo avvicinano a Vittorio Corcos, altro acuto interprete della bellezza muliebre. Ma lo stile di Selvatico non è di pura imitazione. Il suo pennello costruisce sempre un’atmosfera intima, personale, cogliendo la donna nelle profondità della sua femminilità, sfumature psicologiche, civetterie, sensualità.
Tre gli ambiti proposti dalla mostra veneziana: Donna, Famiglia, Modella, ognuno dei quali propone una differente lettura del corpo e della personalità femminili. Se, da un lato, persiste, com’è naturale, l’idea della donna quale figura di riferimento della famiglia, dall’altro continua a piccoli passi l’affermazione del ruolo della donna nella società, iniziato nel Settecento con le Merveilleuses, fra cui la Pompadour e la Du Barry, e proseguito nel corso dei due secoli successivi. Esponente di questa antica e sovranazionale stirpe, la Contessa Annina Morosini, la “regina senza corona di Venezia, dagli occhi verdi e dai capelli color del rame”, della quale Selvatico esegue un garbato ritratto nel 1908. Affiancata da un azzimato levriero, la contessa veste di nero, e l’unico punto di contrasto è la camicetta bianca che s’intravede sotto l’attillata giacca da amazzone. Il voluminoso cappello, anch’esso nero, che le copre parzialmente o sguardo. Ad accentuare l’aura di affascinante mistero, lo sfondo scuro su cui si staglia la nobile figura. Gli unici punti luminosi della tela, sono il volto di lei, e il levriero dal fulvo pelame. Dama raffinata ed enigmatica, di lì a pochi anni finirà nell’alcova di Gabriele D’Annunzio, che farà della Laguna il suo quartier generale per le imprese compiute nella Grande Guerra.

Sulle medesime corde, la tela che ritrae La danzatrice Rita Sacchetto (1911), raffigurata con un sontuoso abito di raso decorato con raffinati motivi floreali, dipinti con certosina perizia, così come le balze dorate del corsetto dall’ampia scollatura che avvolge il generoso seno della Sacchetto. Sui medesimi toni sensuali, l’elaborata acconciatura andalusa, che regala alla donna un’aura zingaresca, avvicinandola alla gitana di Gautier. Sensualità ed eleganza si sommano nei ritratti di Selvatico, e si sublimano nella capacità dell’artista di conferirvi profondità, attraverso la valorizzazione dei volti. Non fa eccezione quello della Sacchetto, su cui labbra rosse e piene risaltano sull’incarnato appena roseo. Ma è lo sguardo il punto focale del volto, ripreso appena di sbieco, rivelatore di un certo sussiego,
Nella pittura di Selvatico, emerge la raffinata esecuzione dei dettagli, siano essi i ricami delle ricche vesti di raso – caratterizzati da preziosi intarsi -, oppure gioielli e cappelli. Ma Selvatico è anche pittore dell’anima, non limitandosi a un mero esercizio di stile. Quel suo soffermarsi sullo sguardo, quel dar risalto a sfumature ed espressioni pensose, mai fredde e banali, infonde alla sua pittura una profondità che indaga e racconta la donna. Non un soggetto passivo davanti al pittore, ma un soggetto attivo, con un suo modo di essere.
Parallelamente alla mondanità, Selvatico frequenta anche l’ambito dell’intimità familiare, legandosi in parte alla tradizione macchiaiola, e in parte seguendo impeti già espressi anche dalla pittura veneta, in particolare da Giacomo Favretto e Angelo Dall’Oca Bianca, anche se per stile, questi ultimi resteranno legati al naturalismo.
La Belle Époque si chiuse nel ’14, con i colpi di pistola esplosi a Sarajevo in una torrida mattina di giugno, e per quattro anni le trincee di mezza Europa saranno inondate di sangue. Dopo di che, la situazione sociale, politica, economica, sarà radicalmente diversa. Selvatico lasciò Venezia per Milano, eleggendo a suo domicilio una casa che era stata di Gabriele D’Annunzio.

Da qui proseguì nell’attività di pittore, ancorato alla volontà di ritrarre e raccontare una società, alle prese con nuove angosce. Esemplare, da questo punto di vista, Francesca con la maschera (1920 ca.) dove il rosso delle labbra e l’azzurro della pietra dell’anello, sfolgorano sul sensuale incarnato color di miele. Una maschera cela uno sguardo colmo d’angoscia, fisso e quasi vitreo, che ricorda quelli di Von Stuck. Un’immortale poesia è alla base del Nudo (1922), che coglie una donna in una posa intima e sensuale insieme, mutuata da Lautrec. Non si tratta però di una prostituta, ma di una donna colta nel momento della toilette mattutina; non c’è languore vizioso, in quel corpo fresco e roseo, ma soltanto l’orgoglio di mostrare la propria bellezza.

Quell’aura onirica che fu tipica di Corcos e del suo Sogni, Selvatico la frequenta nel suggestivo Signorina in rosa (1923), dove la protagonista è raffigurata nella medesima posa pensosa, il medesimo sguardo azzurro e grigio fisso davanti a sé, cui fa da contrasto la posa sensuale delle belle gambe affusolate. Suggestioni orientali animano La veste rosa (1923), con la protagonista che sfodera un sorriso da odalisca, con le labbra semiaperte a rivelare denti bianchissimi, e la posa che risente della pittura orientalista di Delacroix, ed esprime tuttavia una personalissima sensualità. La lucentezza della calze di seta bianca apporta un ulteriore elemento di luminosità.
In quei turbolenti anni Venti, che vedono l’Italia agitata prima dal “biennio rosso”, e poi dall’ascesa al potere del Fascismo, Selvatico continua ad attenersi a una pittura che appartiene al passato, fedele cultore della bellezza dell’anima, di una pudica sensualità, e lontano dalle sperimentazioni delle avanguardie. Al punto che, nell’edizione della Biennale del 1922, fu associato alla corrente che si rifaceva alla pittura ottocentesca. Il suo non è però un indugiare nel “passatismo”, stante la vena di verità psicologica e caratteriale che i suoi ritratti continuano a possedere, accompagnando nel tempo l’evoluzione della coscienza femminile nella società.
Tuttavia, per un tragico scherzo del destino, Selvatico perì in un incidente motociclistico nel luglio del ’24, al culmine di una maturità artistica che avrebbe potuto riservare ancora molte opere interessanti.