La distorsione del bizzarro, mostra a Palazzo Pitti
Fra Cinquecento e Settecento, la pittura di genere alla corte medicea si sofferma sulla bizzarria di nani, buffoni e giocolieri. A Palazzo Pitti, fino all’11 settembre 2016. www.gallerieuffizimostre.it.
Non necessariamente lo spirito d’osservazione che anima una Corte è mosso da intenti scientifici. Se è vero che, tra la fine del Cinquecento e l’apertura del Seicento l’interesse scientifico conosce un rinnovato slancio, e anche la Corte medicea organizza presso gli Uffizi laboratori di ogni genere e raccolti studioli, per approfondire le conoscenze scientifiche, è altrettanto vero che altri ambiti della realtà umana ottengono ben altra attenzione. Complice il sudario conformistico imposto dalla Controriforma, si cercano quegli aspetti comici, teatrali, grotteschi, che la realtà pure conserva, guardando alle sue diversità. Ed ecco che accanto alle bizzarrie vegetali ottenute dagli incori nelle limonaie granducali, o a quelle del mondo animale conservate nelle privatissime Wunderkammer, spuntano dalla ritrattistica nani, buffoni, gobbi, storpi, giocolieri, e minorati mentali, a solleticare la curiosità di una nobiltà vestita di nero chiesastico (almeno in veste pubblica), e che soltanto il grottesco sembra scuotere dal torpore. Un sottobosco umano a metà fra il commovente e il ridicolo, che la nascente pittura di genere immortala con sempre maggior attenzione, per raccontare, con zelo riformato, la multiforme realtà sociale dell’Europa del tempo.
La Corte medicea, che come tante altre ospitava un gran numero di questi bizzarri personaggi, si distinse anche per il collezionismo artistico del genere, e i depositi museali fiorentini hanno a lungo celati dipinti curiosi, suggestivi, a volte persino disturbanti, visibili oggi nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti, che ospita la mostra Buffoni, villani e giocatori alla corte dei Medici, curata da Anna Bisceglia, Matteo Ceriana e Simona Mammana; attraverso 14 dipinti e due sculture, comprese tra la fine del Cinquecento e il primo terzo del XVIII Secolo – ovverosia dagli ultimi bagliori della grandezza medicea, sino al poco decoroso declino, che s’iniziò con Cosimo III e si concluse con il discusso Gian Gastone -, si ricostruisce quel clima divertito e crudele che circondava questi personaggi “meravigliosi”, tenuti con gran cura al solo scopo di offrirsi al vituperio e alla beffa dell’annoiata corte medicea. Numerosi sono i documenti rintracciati negli archivi fiorentini, in cui si descrivono i dileggi e i feroci attacchi cui erano sottoposti; ad esempio, in una parodia degli antichi gladiatori romani, combattono contro asini e scimmie. Episodi ingiuriosi, dei quali in parte si risarciscono prendendosi rischiose licenze sul cerimoniale di Corte. Uno tra i più celebri, fra questi bizzarri personaggi, fu Braccio di Bartolo, nativo di uno sperduto villaggio sull’Appennino bolognese, e comicamente soprannominato Morgante, dall’omonimo personaggio (caricaturale), dell’opera di Luigi Pulci. Bronzino ce ne ha lasciato uno splendido, commovente ritratto (ante 1553), sospeso su uno sfondo oscuro, fiabesco, nell’atto di ammaestrare uccelli rapaci, quali gufi e civette. La particolarità del dipinto, è il suo essere bifronte, e Morgante è appunto raffigurato di fronte e da tergo. Il personaggio del nano cattura a tal punto la fantasia degli artisti, che il bresciano Faustino Bocchi li inserisce nel ciclo delle Quattro stagioni (1690-95), sorta di vivace e parodistica rappresentazione su tela “mondo alla rovescia” della tradizione medievale (in cui si parla di una terra alla quale si giunge cavalcando un’oca blu, dove gli sparvieri pescano i pesci in un ruscello, gli orsi cacciano i falconi, volano i polli arrosto e l’asino suona la lira), che vede questi buffi esserini soccombere di fronte ad animali quali topi e ranocchi, segno del clima di dileggio che sempre li accompagna nel mondo reale.
Particolarmente suggestivo, il Ritratto di un buffone (Meo matto), eseguito dal Suttermans, che effigia l’uomo con sorprendente vicinanza emotiva, riscontrabile nella posa scomposta delle mani, nella bocca semiaperta, e soprattutto nello sguardo spaesato, timoroso, di persona che si offre generosamente a divertire il sovrano, senza essere conscio del dileggio di cui è oggetto.
La mostra fiorentina, è occasione di riscoperta e sistematizzazione di opere per la maggior parte sinora custodite nei depositi; nell’allestimento non si segue un criterio cronologico, le opere dialogano fra loro senza soluzione di continuità, trasportando l’osservatore in un’atmosfera sospesa fra grottesco e regalità.
Si può quindi osservare l’incontro, a tratti drammatico, fra “alto” e “basso”, della Corte, la normalità e la deformità, la risata e la malinconia. Può accadere che personaggi di grande razza e sangue raffinato, abbiano talvolta il gusto dell’abiezione. E fu disgraziatamente il caso dell’ultimo Medici, quel Gian Gastone d’ambigua memoria, che amava circondarsi di nani, giocolieri e palafrenieri, per festini e “balletti verdi” dal non sempre limpidissimo finale. Episodi estremi a parte, il gusto per il diverso, o semplicemente per l’umile, allignava a Corte; si veda lo splendido Guardarobiere di Pratolino con cacciatori e cuochi (1634 ca.), che immortala i rozzi volti di coloro che erano addetto ai servizi bassi di cucina e degli staffieri, elevati per un istante al rango di soggetti artistici. Effetti del vento innovatore portato dagli artisti Olandesi, calati in Italia per studiare Caravaggio, ma che vi introdussero però la pittura di genere, vicina alla realtà dell’individuo.
Scene domestiche a parte, regnava a Corte una certa fascinazione, oltre che per la bizzarria dei nani, anche per l’aura misteriosa che circondava zingari, chiromanti, suonatori girovaghi, e avventurieri consimili. Nell’Italia del Seicento, la pittura di genere ispirata dalla Riforma trovò nella Roma papalina un ambiente particolarmente fertile di scene popolaresche declinate sui vizi e il malcostume. Oltre che nelle collezioni medicee, la mostra spazia anche su queste opere, e vi spicca la Scena di gioco e chiromante in atto di leggere la mano (1624), di Nicolas Régnier; punto focale dell’opera, la dama al centro in primo piano, dalla bellezza tipicamente romana, il seno morbido e abbondante, il volto pieno e appena arrossato, la ricca veste di velluto dalle ampie maniche a sboffi. Quasi una dea pagana delle voluttà, forse una cortigiana. Alla sua destra l’indovina, che con gesto sensuale tiene nel suo palmo la mano della dama. La pelle scura – che contrasta con il turbante bianco -, lo sguardo appena percepibile, ne fanno una figura eroticamente e spiritualmente misteriosa, guardata con sospetto e curiosità. Alla verità del Vangelo, predicata dai pulpiti, a volte si preferisce il paganesimo della divinazione. Un quadro dove tutti rubano qualcosa a qualcuno, una bonaria ammonizione dell’artista contro il vizio del gioco e la credulità.
Al di là del carattere giocoso che certe opere potevano avere all’epoca della loro realizzazione, sono capaci di parlare all’osservatore di oggi per il loro valore documentario sulla condizione degli umili; non tanto nani e buffoni, quanto gli esponenti della classe popolare. Il popolo italiano dell’epoca (ma non solo), rappresenta l’antitesi della coscienza civile; viste in controluce, le tele esposte a Palazzo Pitti raccontano incidentalmente la malleabilità di individui governati con la vecchia ricetta del “panem et circenses”, sovente disposta a chiudere gli occhi su una certa licenziosità di costumi. Taverne e bordelli proliferavano dalle Alpi alla Sicilia. Nessun moralismo, certo, verso la licenziosità dei costumi dell’epoca; l’umanità è carnale, e anche lo spirito reclama i suoi momenti di pausa. Ma, accennavamo di sopra, come sempre accade nel Barocco, (che non è, si noti, un semplice stile artistico; questo venne in conseguenza di un sentire sociale dettato dall’alto da precise necessità politiche, come lo sarà il Neoclassicismo nella Francia napoleonica), si eccede. Eros e Bacco sono le risposte fisiologiche di una coscienza civile collettiva lasciata vuota per espressa volontà del potere politico.