“Narrare il conflitto”, il nuovo libro del Corriere della Sera
Si chiama “Narrare il conflitto. Propaganda e cultura nella Grande Guerra” ed è il nuovo libro edito dalla Fondazione Corriere della Sera presentato ieri alla Biblioteca di Palazzo Esercito.
“A Caporetto abbiamo vinto”. Si apre così, con l’intervento del curatore Stefano Lucchini, la presentazione di “Narrare il conflitto. Propoganda e cultura nella Grande Guerra”. Una frase chiaramente ironica quanto storica che, una delle firme del nuovo libro edito dalla Fondazione Corriere della Sera, usa per racchiudere fin dove la propaganda si spingesse durante il primo conflitto mondiale. Un libro nato dall’esigenza di analizzare il ruolo della stampa nella narrazione degli scenari bellici in un’epoca dove la cultura – e la stessa comunicazione – diventava di massa.
Fra i controsoffitti lignei della Biblioteca di Stato Maggiore di Palazzo Esercito, presenti alti rappresentati delle forze armate fra cui il generale Claudio Graziano, ex Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, intervenuto nel dibattito. Con lui Paolo Mieli, presidente di RCS, che ha sottolineato l’importanza del volume poiché tratta “della propaganda del giornale impersonificato dall’allora direttore Albertini, che influenzò la polemica nel decidere da quale parte stare”.
Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera per 21 anni, portò il quotidiano liberale milanese a una posizione di prestigio e fu, in quegli anni di decisione e interessi, un fervente interventista per una guerra che, ricorda Mieli, “ha generato uno shock cui gli storici associano la nascita dei totalitarismi. La propaganda – conclude l’ex direttore de La Stampa e Corriere – portò al quotidiano un notevole incremento di copie, ma è un comportamento sobrio dell’informazione, rispetto a uno enfatico e pronto a difendere anche casi ambigui, a fare la differenza”.
“Un comportamento tuttavia difficile da gestire nello stato di guerra” secondo Alessandro Santaclara, uno degli autori del libro. La situazione in cui versava l’Italia era parallela al processo di industrializzazione e statalizzazione degli apparati e della società pubblica: il Paese non era pronto, un paese alla guerra non lo è mai. “Dobbiamo chiederci – continua il co-autore – quali siano state le dinamiche per cui la guerra di Libia e disastri come Caporetto giocarono ruoli fondamentali in un momento in cui il patriottismo si trasformava in nazionalismo”.
Ai processi di nazionalizzazione, l’Italia post-giolittiana viveva una fase di incompleta unificazione nazionale che il conflitto contribuii ad acuire: i problemi reali del Paese furono sedati con la gloria, con l’importanza di sedere ai tavoli internazionale da protagonisti. Fra i vincitori, l’industria bellica aumentò tale squilibrio derivato dalla trazione settentrionale del già esistente divario nord-sud; la tensione sociale crebbe e quando la gloria divenne vana, quegli stessi problemi, quattro anni più tardi, si pensò bene di lasciarli “riordinare” al fascismo. La Grande Guerra portò anche questo, con la propaganda che dal canto suo giocò un ruolo decisivo nel far assorbire positivamente tutto questo al popolo diventato massa. Per dare un’idea dell’importanza e delle necessità di successo in termini di consenso, il servizio di stampa militare fu affidato a grandi firme del giornalismo italiano inviate sui teatri di guerra, molte provenienti dallo stesso Corriere della Sera: non si doveva sbagliare un solo colpo, né di cannone né di comunicati ufficiali. Il libro in questo senso è fortemente attuale, come lo è il conflitto che racconta. Oggi l’equilibrio occidentale è mutato e la visione di un guerra torna nell’opinione pubblica: una massa cambiata fra social network e disinformazione che sembra non avere, insieme ad alcuni vertici della comunicazione e del potere, coscienza dell’orrore che il conflitto bellico porta su più livelli.
“La Grande Guerra per l’Italia – conclude Santagata – è stata parte del processo di unificazione in cui uomini di diversa estrazione geografica e linguistica si ritrovavano in trincea a combattere e comunicare insieme”. Questi combattenti, vittime e carnefici, rientrano anche in “un’altra fase del conflitto” secondo il generale Graziano. “Non c’è solo il pre e il post Caporetto – aggiunge – ma anche episodi come la battaglia di San Michele, sull’Isonzo, dove persero la vita migliaia di volontari provenienti dalla società civile. Queste persone che andavano a combattere erano impreparate è vero, ma cantavano”.
A concludere l’evento fra lo scorrere di copertine de “La Domenica del Corriere” e “Il Corriere del Piccolo”, l’intervento del Ministro della Difesa Pinotti, che ha risposto ad alcune domande di Luciano Fontana – attuale direttore del Corriere della Sera – sul ruolo che intercorre fra stampa e potere, tra propaganda e comunicazione. “Oggi – dichiara il Ministro – gli organi di stampa decidono di essere influenti su questioni importanti. La domanda ultimamente è ‘perché non bombardate?’: se qualcuno volesse fare propaganda così sarebbe sulla strada sbagliata”. E sulla censura Pinotti è chiara: “a Pesaro c’è un Reggimento specializzato in questo tipo di lavoro. Si tratta del 28° “Pavia” che cura la comunicazione di determinati eventi e operazioni. Credo che bisogni spiegare alcune cose, come l’utilizzo degli f35 o di sottomarini, mentre altre cose no”.