Vietato vietare. Il fallimento della Woodstock italiana

Il 1979 vide l’apice della rivoluzione culturale iniziata nel maggio del 1968. L’epicentro di questo cambiamento epocale è convenzionalmente fissato a Parigi ma, come storicamente accaduto più volte, trovò terreno più fertile negli Stati Uniti. Qui, sull’onda lunga di quella ribellione generazionale, nacque la beat generation, il sogno estremo degli eccessi di una vita sregolata: Route 66, Kerouac e tanta, tanta droga. Il 1969, appunto, fu l’anno di Woodstock ma non c’è bisogno di dire cosa fu; sotto certi aspetti ebbe lo stesso impatto culturale di Armstrong sulla luna.

Qui, in Italia, cercavamo di tenere il passo ma faticavamo a uscire dall’impasse di una cultura schiava di una intellighenzia dal colletto bianco, amante dei completi gessati. L’accademia faticava a concedere anche poco e, barricata nelle università – faro culturale dell’Italia post-bellica – continuava a osteggiare qualunque tipo di espressione che non fosse allineata. Fu in parte la rovina di un paese che, dopo la dittatura, invece di trovare un sano equilibrio, si sbilanciava dal lato opposto.
Alcuni novelli Prometei, cercarono di strappare la poesia dalle mani dei “professori” per restituirla al popolo ma, come il titano della mitologia greca, vennero puniti.

Beat ‘72
A Roma, in via Gioacchino Belli al civico 72, un gruppo di amici aveva dato vita a un teatro presto divenuto fucina di un’avanguardia che voleva riavvicinare la poesia al popolo, voleva renderla disponibile a tutti, credeva in quei valori culturali che inneggiavano all’eguaglianza in ogni campo e settore. Fu luogo di grande sperimentazione e contribuì a ingrassare il panorama culturale di sinistra, in molti calcarono il suo palco e ne sposarono le istanze, tra questi: Carmelo Bene, Ennio Fantastichini, Roberto Benigni. Era questa la seconda generazione di intermediari, nuovo ponte tra America e Italia; se i primi furono Elio Vittorini e Cesare Pavese – a rischio censura durante il Fascismo – adesso Fernanda Pivano, Dario Bellezza, Nico Orengo strizzavano l’occhio all’America di Ginsberg e Burroughs; sognavano una letteratura del popolo, per il popolo ma che mai il popolo avrebbe dovuto toccare con le sue mani. Era si poesia proletaria e bene andava finché a leggerla fossero rimasti i poeti stessi, dall’alto di un palco, lontani dalle mani gonfie dei lavoratori.

Castel Porziano, la Woodstock italiana
È da questa idea che nasce il Festival Internazionale dei poeti che si tenne, in un clima di grande fermento, dal 28 al 30 giugno del 1979, nella spiaggia libera di Castel Porziano. Grazie anche all’appoggio di Renato Nicolino, allora assessore alla cultura, si pose in essere l’idea di realizzare un evento in cui, in modo totalmente libero, si potesse cantare, suonare ma soprattutto leggere e “fare” poesia.
Victor Cavallo, allora ritenuto uno dei più importanti poeti della scena romana, vestì i panni di presentatore di quello che avrebbe potuto essere uno degli eventi culturali più importanti della storia italiana.
Hitmen
Murderers everywhere
The secret. The drunk. The brutal. The dirty rich
On top of a slag heap of prisons
Industrial cancer
Plutonium smog
Garbage cities
Grandmas’bed soft from fathers’resentment.
Allen Ginsberg, autore di queste parole che in maniera icastica fotografano un’epoca, è ospite d’onore del festival ma, anche quando sarà lui a salire sul palco, il pubblico non avrà rispetto, si abbandonerà a fischi e imprecazioni; vuole essere protagonista. Se il festival dei poeti è per la gente, allora la gente vuole il palco e di conseguenza il microfono. È il disordine più totale, c’è chi prende d’assalto la struttura e chi, con nonchalance, si presenta con un calderone pieno di minestra da offrire agli astanti. Dal palco, in alcuni momenti volano sedie e quel clima che avrebbe dovuto essere pacifico e di festa, spesso è teso e incontrollabile. La struttura installata resiste poco e sprofonda inghiottita nelle sabbie di Ostia, la Woodstock italiana si conclude in un fallimento totale.
Il est interdit d’interdire
A distanza di tempo c’è chi crede sia stato l’apice dell’avanguardia; l’idea di un uomo qualsiasi che strappa il microfono dalle mani di Ginsberg per far declamare al figlio piccolo una sua “poesia” è il simbolo di quella rivoluzione violenta che avrebbe dovuto portare a una sorta di dittatura del proletariato culturale ma che invece ha solo sancito l’ennesimo allontanamento del mondo intellettuale da quello delle masse. Due mondi che non vogliono toccarsi e che, magneti dai poli uguali, continuano a respingersi. Il motto del maggio parigino fu Il est interdit d’interdire, vietato vietare; era l’inizio di un movimento che voleva abbattere pregiudizi, rimodellare forme, spostare confini. Era il primo puntello per demolire, senza ancora avere chiaro cosa ricostruire. Infranta la diga, però, restammo senz’argini.