L’uomo laser, c’era una volta in Svezia di Gellert Tamas
Raccontare una storia rendendola romanzo: incrociare due tipologie diverse, la narrazione e la cronaca nera. Questa è l’opera di Gellert Tamas, che nel suo romanzo “L’uomo laser, c’era una volta in Svezia” racconta la storia vera di John Ausonius.
L’uomo laser
Questa è una di quelle vicende che potrebbe tranquillamente finire nell’elenco delle puntate podcast dedicate ai casi di cronaca nera, con una risonanza a livello internazionale. A renderla tale, il sentimento profondo che spinge questo personaggio a compiere tali gesti di violenza estrema e mal calcolata: l’antisemitismo, la xenofobia, il razzismo.
Un’accozzaglia tale di odio, concentrata in un solo soggetto, può solamente esplodere ad un certo punto della sua vita: un uomo che cresce e si trasforma in un involucro di carne spinto solamente da una catena di sentimenti come l’odio e l’intolleranza, i quali sono in aperto contrasto con altri sentimenti, che si scontrano dentro di lui e lo spingono (talvolta) a chiedersi perché stia compiendo tali atti criminali.
John Ausonius è stato protagonista di ben undici sparatorie (dall’agosto del 1991 al gennaio del 1992), durante le quali ha ferito gravemente tutte le vittime, riuscendo da ucciderne una soltanto.
La maggior parte dei malcapitati è rappresentata da minoranze etniche e soprattutto immigrati, trasferitisi nelle zone limitrofe di Stoccolma e Uppsala, alla ricerca di opportunità di lavoro e/o di studio.
Il soprannome “uomo laser” deriva proprio dalla scelta compiuta sull’arma: un fucile dotato di un mirino laser (anche se poi successivamente di doterà anche di un revolver), con il quale seguiva le vittime prescelte, che improvvisamente venivano freddate da un colpo, spesso non mortale, ma comunque capace di causare ferite profonde (nel corpo, ma soprattutto nell’anima).
John Ausonius è stato arrestato nel giugno del 1992 e condannato all’ergastolo nel gennaio del 1994; inoltre si è rivelato essere anche il principale sospettato per l’omicidio di una donna ebrea, compiuto a Francoforte nell’inverno del 1992.
Un personaggio contraddittorio
Gellert Tamas regala ai lettori quasi 500 pagine di una storia che, oltre ad essere la trasposizione su carta di un caso di cronaca nera, deve per forza far riflettere. Siamo in Svezia, in un paese che si è sempre fatto portatore di un messaggio di apertura verso le diverse etnie e culture, ma che negli anni ’90 ha vissuto un periodo politico “buio”, dove il partito di estrema destra ha preso il potere e con lui, tutto il programma politico che di sicuro non era di apertura, bensì di chiusura.
L’autore del romanzo ha lavorato con precisione ed estrema cura del dettaglio, durante la stesura di questo romanzo: ha infatti dichiarato di aver intervistato alcuni poliziotti che ai tempi furono coinvolti, ma anche persone comuni che vissero quei due anni con alto terrore fin ad arrivare a John Ausonius stesso, che Gellert Tamas ha incontrato in carcere per raccogliere anche la sua di testimonianza.
La contraddittorietà del protagonista nasce proprio dal fatto che lui per primo è figlio di immigrati, che si trasferirono in Svezia negli anni ’50 e che, come famiglia, cercarono in tutti i modi di adeguarsi al nuovo paese, nei suoi usi e costumi, nei suoi colori: John però evidentemente non ci è mai riuscito e questo lo ha portato a non comprendere chi arrivi nel paese che in un qualche modo è diventato “casa sua” e dunque come gli immigrati stessi non possano far parte di questo suo nuovo universo.
Il razzismo
Il vero protagonista di questa cronistoria è indubbiamente il razzismo: John Ausonius si fa solo tramite di questo sentimento, che domina l’animo umano in tutto il mondo, che attraversa i secoli, travalica confini e oceani e che non lo si riesce a fermare mai.
Quello che non conosciamo, spesso, ci spaventa: non c’è nulla di più veritiero in questa frase. Dunque, quando qualcuno “diverso” da noi cerca di farsi parte integrante della nostra realtà, c’è il soggetto che accetta l’altro nella sua vita e c’è invece proprio non è in grado di essere accogliente e dunque respinge.
Purtroppo, il creare un muro verso gli altri degenera spesso nella violenza: da una parte del muro c’è chi spinge per buttarlo giù, dall’altra c’è chi spinge per tenerlo in piedi.
Uno sforzo inutile perché l’unica salvezza dell’umanità è proprio l’accoglienza, quella che la famiglia del serial killer non ha avuto quando negli anni ’50 si trasferì in Svezia e quella che dunque lo stesso John non conosce e che non può in nessuna maniera mettere in pratica verso coloro che lui considera “diversi” da sé.
Una storia profonda, violenta, triste e terribilmente attuale.