La notte non finisce a Hiroshima

Dal Secondo Dopoguerra al primo decennio del Nuovo Millennio, Roberto Roversi, incessantemente e con instancabile acume, ha posato il suo sguardo sulla nuova società che tentava di nascere dalle ceneri della guerra. Con uno stile unico, che non dimentica le esperienze letterarie antecedenti ai grandi conflitti, è stato difensore di una lirica che sembrava non avere più terra su cui attecchire. Bibliofilo e grande uomo di cultura, decise di allontanarsi dal circuito delle grandi case editrici e, a partire dalla metà degli anni Sessanta, autopubblicò i suoi scritti o li affidò a piccoli editori indipendenti. Per certi versi, ancora oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, poco lustro è dato a uno degli uomini più autorevoli della cultura italiana dello scorso secolo.
Per i tipi di Pendragon, esce adesso Non isolarsi ma ascoltare, un’antologia poetica che interseca la produzione roversiana soffermandosi su alcune tra le opere più incisive dell’autore bolognese, inserendo nella quarta e ultima parte i cosiddetti “testi sparsi”, in grado di dare ulteriore luce a una poesia che ha resistito alla prosaicità del modernismo.

Dopo Campoformio
Un “unico poema in canti o lasse”, così definiva l’autore il suo Dopo Campoformio. Ogni canto, difatti, anche se in alcuni casi autoconclusivo come la tradizione prevede, si sussegue consequenziale all’altro. Ogni strofa un bozzetto fortemente evocativo che richiama gli anni della guerra, quella che Roversi visse da partigiano; il ricordo della Liberazione, le parole di Ferruccio Parri del maggio 1945. Un poema in grado di restituire le scene di un’Italia devastata, l’alone fascinoso di una morte onnipresente:
“A campare al mondo si diventa vecchi.
Pare un sogno.
Passa un giorno, passa l’altro
e si è vecchi e si deve morire.
Pare proprio un sogno.
Il fascino profondo della morte,
la sua forza, superbia, l’astio,
contro la vanità, il suo fremito giovane,
la semplice linea del suo volto ambrato”
Sebbene permanga l’influsso di Carducci, come sottolinea Marco Antonio Bazzocchi, qui la natura, turbata dall’orrore della guerra non suggerisce requie e svela la follia dell’uomo sulla terra, fino a raggiungere l’apice ne “La bomba di Hiroshima”, in cui la parola si fa correlativo oggettivo di montaliana memoria.
“Gli anni passano, gli anni non passano mai”
Matteo Marchesini, in apertura alla silloge de Le descrizioni in atto (1963-1970) scrive che Roversi “vedeva la vita e la letteratura come una serie di battaglie nobili e atroci in cui sono sempre coinvolte le sorti del mondo intero”. Partendo da ciò è ancora più semplice comprendere l’originalità di Roversi, che ebbe la capacità di portare gli anni del boom economico all’interno di una sovrastruttura epica il cui linguaggio è necessariamente lirico. Così, ne Le descrizioni in atto, la cronaca di quegli anni è narrata in un verso-riga il cui ritmo incalzante e l’attenta e preziosa scelta lessicale trasferiscono i quesiti irrisolti di sempre nell’età post-moderna.
“ Solo una faccia hanno le persone
e un pugno di dolore.”
Vi è tutto, Archimede e Oppenheimer, Paride e Filottete, la borghesia, il proletariato e il contadiname. Marx è stato tradito, il borghese langue nelle domeniche sartriane. È il cancro del secolo che, come un tarlo, Roversi fissa in un’istantanea sfocata, un quadro futurista in movimento: il tradimento dei principi del comunismo, lo sfruttamento del lavoro degli immigrati nel Nord-Italia. Le cronache violente dei rotocalchi si fanno poesia. È la società di Ro.Go.Pa.G.

“piccoli sabati santi, le domeniche non finiscono mai
insopportabilità della vita familiare
un prossimo divorzio
l’omicidio, il temporale che viene
(con tutti i sintomi della catastrofe)”
L’Italia sepolta sotto la neve
E la catastrofe arriva, dopo il boom il fungo atomico cala sull’Italia degli anni di piombo: L’Italia sepolta sotto la neve. È quindi tempo di interrogarsi ancora sul male e sul dolore, costante umana:
“Non puoi aspettare le barche.
Fra pochi giorni cominceranno le piogge.
La neve sarà spazzata. La neve.
La neve.
Non posso aspettare
Poi mi è venuto il pianto”
L’io lirico porta qui sulle spalle, la sofferenza del genere umano, Bologna è ancora una volta una torre eburnea non troppo isolata né alta, dalla quale poter assistere ai nuovi eventi. In un lungo lasso di tempo, dagli anni ’80 al 2010, Roversi narra ancora in un poema flusso – come identificato da Marco Giovenale – la Storia d’Italia che è storia del mondo. Così Hiroshima torna, la strage di Bologna diviene gemella alla Guerra del Golfo; Krikalev – ultimo uomo dell’URSS – dialoga a singhiozzi con Mirella Silocchi, torturata e uccisa; in un’allegoria di solitudine e follia umana.

In conclusione al testo, Fabio Moliterni propone una lettura di libri e fogli sparsi dell’autore che permettono di comprendere non solo la fucina dello scrittore ma quasi suggeriscono l’immagine del Roversi bibliofilo, immerso nella lettura, al caldo della sua libreria antiquaria Palmaverde, in via Rizzoli a Bologna. Lì seduto, possiamo ammirare tra le pagine, il poeta silenzioso nutrirsi di vita, domandarsi e poi rispondersi.
“Risposte risposte risposte.
Non sbalordire sui sintomi.
Concludere.
Dare mille risposte.
Il tuo dolore è il mio dolore
non il mio piacere.
Io non ti invidio.
Ti amo.
Non perderti. Domani…”