Quando l’insonnia diventa poesia
Ciao Andrea e benvenuto su 2duerighe.com, partiamo subito su qualche domanda, come e quando è nata l’idea di scrivere questo libro?
È nata dalla rielaborazione di un blocchetto di disperati e gelidi appunti scritti tempo addietro, nel corso del primo lockdown, annotazioni gettate nervosamente sui fogli senza che, a distanza di tempo, riuscissi a decifrare agevolmente nemmeno più la mia grafia. Frasi monche, scenari retrospettivi della mia vita, attimi sospesi sul nulla e afferrati dalle parole, fotogrammi di ricordi scheggiati dal tempo: ecco in quel blocchetto avevo scritto “Al culmine della disperazione”, per dirla con un autore a me caro, in un periodo della vita nel quale, per la prima volta, avevo conosciuto un’angoscia notturna vertiginosa, popolata di incubi, mute interrogazioni metafisiche, idee deliranti e pochissimi chiari di luna. La rilettura di quel taccuino di viaggio, sonda gettata nel brivido di una notte temibile e opprimente, a pensarci ora, a distanza di tempo e con quegli stati d’animo estremi diventati per fortuna ricordo, mi fa venire in mente il valore terapeutico della parola e della letteratura, lo scandalo del senso che riappare dal letargo e trova una lingua per raccontarsi, il tirante estremo che ti solleva dalla palude del pensiero e ti tende verso la vita. La necessità di trascrivere e rielaborare quegli stati d’animo in poesia e prosa teatrale è emersa naturalmente, perché nulla più del verso può restituire a chi scrive (e, probabilmente, a chi legge) la logica fantasmatica della notte, che è quella del paradosso, tra le enormi distanze invisibili, i colori intensi ma soltanto immaginabili, la realtà che evapora nel verosimile e il verosimile che si allea con elementi di realtà, dando via a fantasie profonde e all’affresco “epico” del proprio Sé. Per i sentimenti che si estremizzano, occorre un linguaggio drastico e apodittico come quello della poesia. C’è bisogno, infatti, di inscenare un flusso, non di definire contorni o confini.
Nel tuo libro citi davvero tanti autori, ho notato però che non usi mai la lettera maiuscola nei nomi, come mai?
Dalla mia prima raccolta poetica del 2008, (D)io@parole.com, evito sistematicamente nei miei testi sia la punteggiatura che la lettera maiuscola: uno spontaneo moto di protesta, credo, contro ogni dilatazione retorica, una presa di distanza, forse, dalla pomposità carducciana di cui la poesia contemporanea in parte, forse inconsapevolmente, continua a essere figlia. Inseguo, al contrario, una poesia che, seppure erede della nostra ricca tradizione letteraria, viva dopo la lirica, recuperi la incessante sperimentazione degli ultimi decenni e si riferisca finalmente a luoghi, utopie e mondi costituiti di indefinibile realtà materica in evoluzione. Prediligo perciò inscenare pensieri concatenati, aperti, fluidificare immagini spesso fluttuanti; e vivo l’atto poetico, ma già l’approccio alla poesia, come activitas, liberazione dal bisogno di tacere. Tra l’altro, evitare la punteggiature mi impone un durissimo lavoro sulla parola, per garantire la comprensibilità della costruzione, il ritmo, l’integrità dell’immagine, la circolazione agevole delle metafore. Anche i nomi, pertanto, si diluiscono in costruzioni di senso, nel recupero di parti di me rimosse, nella individuazione di lembi di desiderio colti anche attraverso le opere degli autori letti e studiati. Evidenziare con la maiuscola quei nomi illustri, in un contesto letterario così concepito, dinamico e psicoanaliticamente orientato, sarebbe soltanto un freddo omaggio all’antroponimia, filone settecentesco dell’erudizione e ramo colto dell’onomastica. Se lo facessi, andrei contro l’involontarietà (e il “divenire”) della mia poesia.
Descrivi la notte sotto molteplici aspetti, ma cosa significa la notte, oltre l’opera, per Andrea Manzi?
La notte in questo mio ultimo libro appare come un incubo, un enorme teatro della mente dal quale emergono attimi sospesi sul nulla, in cui si cela l’anima antica e malinconica delle cose. Da giovane, invece, la notte era essenzialmente libertà, campo d’azione nel quale operavo, io schivo e solitario, lontano dagli occhi avidi degli altri. La familiarità con le ore piccole è stata favorita anche dalla mia attività giornalistica, dal ritmo implacabile delle pagine da chiudere, dalle ribattute incombenti e frettolose, dal fischio della rotativa, da quel rito fogliante del parto del giornale, che è una nascita e un’epifania quotidiana. In quegli anni, il tempo libero, gli amori, le tavolate si protraevano fino all’alba. C’era un ristorante-ritrovo a Napoli, città nella quale ho prevalentemente lavorato, che era un antro vociante di attori e giornalisti nottambuli. Io ero lì, una monade solitaria che si incastonava in un affresco atipico, nel quale le solitudini si riconoscevano senza mai combinarsi in un’unità. Le (com)passioni e le solidarietà erano indotte più dall’alcol che dal comune sentire; ne conseguivano illusioni di profondità di campo e alterate forme dei volumi. Le ombre e le suggestioni notturne della mia notte attuale nascondono, probabilmente, l’angoscia per una felicità ormai consegnata a quel passato e che ora vive nei bisbigli del tempo andato e nell’inquietudine dei sogni. E la poesia, come il cinema, aiuta a riconoscere gli stati passionali finiti nelle profondità dell’inconscio, che il verso poi tenta di tradurre in rappresentazioni interne.
C’è tanto teatro in “Insonnia”, come nasce la tua passione per il palco?
La poesia, sosteneva Eco, non è cosa per intellettuali raffinati, ma «è nata per essere recitata a voce alta ed essere mandata a memoria, altrimenti ditemi voi perché mai avrebbero dovuto usare artifici mnemonici come il piede, il metro, la rima?». È proprio così, la poesia può diventare farmaco equivalente, terapia alternativa, rivoluzione incruenta, accusa docile e implacabile, asilo politico, città/comunità virtuale. Sono potenzialità che la scena trasforma in atto (teatrale): il palcoscenico integra il senso delle parole perché offre loro un corpo visibile e dinamico. Se anziché sovrapporsi al teatro, il poeta riesce ad operare “inter-codice”, vale a dire con una propria “carnale” autonomia nello spazio scenico, inaugura inediti e rivelatori percorsi intellettuali. Il mio “Dino Campana poeta”, alla fine degli anni ’80, scritto quando avevo circa venticinque anni e molto apprezzato da Ugo Gregoretti, affrontò i rischi della rappresentazione e li superò senza danni, anzi uscì fortificato dal passaggio in scena, come riconobbero Nico Garrone ed Enzo Siciliano. La poesia in teatro allora funzionò, eccome. Fu il battesimo di una possibilità stilistica.
Convinti che la parola poetica possa diventare corpo/soggetto teatrale, allestimmo alcuni anni fa, con il regista Pasquale De Cristofaro, la tragedia della xenofobia e l’orrore dei ghetti neri sperimentando, attraverso la densità simbolica del canto, un teatro divenuto crocevia della contemporaneità. Nei miei versi su Castel Volturno – quattordici “stazioni” di una livida via crucis entrata, con altri testi, in un intelligente spettacolo con Mariano Rigillo e Peppe Lanzetta – Maurizio Cucchi evidenziò un profilo epico che probabilmente sottendeva una disperata esigenza, filosoficamente “barbarica” dopo Aushwitz, di raccontare in poesia le nuove pagine del potere corrotto e delle infamie contemporanee. L’Olocausto non ha inaridito la parola poetica, i versi raccontano ancora verità e angosce e, tra pudori e ossessioni, rinominano utopie, desideri, tragedie, amori negati e incomunicabilità. Sono questi i sensori di cui l’umanità ha bisogno per non soccombere alla “ragione informatica”. La poesia civile può scuotere il cuore, farsi bandiera di luoghi divenuti inospitali e violenti, duri come la roccia. In un altro mio lavoro per il teatro, “Ring”, con il mio corpo malfermo di parole, tentai di far risplendere l’orma di Pasolini, che lascia trasparire, ogni qualvolta si rianima, l’ombra dell’uomo-Gesù: vettori, l’uno e l’altro, Pier Paolo e Cristo, di un amore assurdo e senza ritorno, luci di orientamento, entrambi, nell’era che spegne ogni lume.
Citi Emil Cioran, cosa ti ha colpito del filosofo rumeno?
Forse il terrore per la notte-incubo, per quella “vertiginosa lucidità” che può trasformare la vita in un luogo di tortura, in momenti tesissimi in cui la coscienza si esaspera e gli interrogativi non hanno mai risposta. L’insonnia portò Cioran sull’orlo del suicidio e nessun balsamo gli venne dalla filosofia; tuttavia egli sperimentò l’importanza della letteratura che diventa terapia e allenta la morsa della disperazione e la distruttività del pensiero chiuso in se stesso. È forse proprio questa activitas della letteratura a rendermelo familiare. D’altra parte, chi vive tragicamente l’insonnia denuncia (senza dirlo) un’assenza di sogni. E chi non sogna, si dispera. Perciò, Pessoa diceva che chi non dorme sdorme.
Com’è nata la collaborazione con Castelvecchi?
In maniera del tutto fortuita. Avevo informalmente illustrato il mio progetto-Insonnia a un amico, esperto agente editoriale, che ne parlò senza che io lo sapessi al titolare della casa editrice Castelvecchi. Ne scaturì una grande curiosità dell’editore, al quale illustrai telefonicamente la mia idea. Dopo qualche giorno, mi fu chiesto di inviare il dattiloscritto e, dopo una settimana, arrivò il sì, nonostante l’editore Castelvecchi non abbia una collana di poesia. Il mio libro, infatti, è uscito fuori collana.
Progetti: cosa bolle in pentola per il futuro?
In questi giorni sto rivedendo un mio testo teatrale su Pasolini, che dovrebbe debuttare ad ottobre. In esso recupererò la critica radicale del grande poeta al teatro. Sarà un testo particolare: il teatro che si osserva dal di dentro e, attraverso i due protagonisti, tenterò di dar vita a un durissimo confronto tra poesia e rappresentazione scenica. Pasolini non credeva nell’urlo e nella chiacchiera messi in scena e, pertanto, aborriva il teatro borghese e anti-borghese. Per lui l’unico teatro possibile era quello della mente, cioè della parola, quindi della poesia. E, poi, al di là della mia attività letteraria, sto cominciando a lavorare a un manuale di geogiornalismo, che scriverò con mia moglie Silvia Siniscalchi, professoressa ordinaria di geografia. Sarà una critica all’attuale modello informativo e un appello a ricreare spazi per una nuova modalità cronistica, che metta al centro la vitalità dei territori e riaffermi la necessità dell’inchiesta. Quest’ultima langue da decenni, in particolare da quando noi giornalisti abbiamo cominciato ad aver paura della verità.
Ultima domanda prima dei saluti: rileggendo la tua opera con il senno di poi, c’è qualche modifica che apporteresti?
Continuo ad avere dubbi sulla commistione di poesia e prosa teatrale in uno stesso testo, ma giorno dopo giorno mi convinco che l’unitarietà di “Insonnia” non è scalfita dalla apparente commistione di generi. Un buon risultato per una coscienza iper-critica come la mia che, per i precedenti testi dati alle stampe, ha spesso pensato che sarebbe stato meglio non averli scritti.