Sun&Sea, il padiglione dell’apocalisse

Caldo fuori, caldo dentro
Caldo fuori, ancora più caldo all’interno; un’atmosfera umida, che ricorda quella soffocante sensazione provata solo alla Tate Gallery con l’installazione Sun di Olafur Eliasson. Quasi tre anni di attesa, pandemia permettendo, file interminabili a Venezia nel 2019 per entrare nel padiglione lituano ed assistere ad almeno un minuto della performance di un’ora che ha mandato in visibilio il pubblico e la critica; ma, finalmente, lo scorso week end la tanto acclamata performance Sun&Sea è arrivata in teatro.
Agli spettatori viene distribuito un libretto, come all’opera: ma siamo in spiaggia. Si suda come al mare, ma non c’è acqua da nessuna parte, ed il mare sembra un ricordo lontano anni luce. Solo sabbia ovunque, venticinque tonnellate: il pieno di riviste, creme solari, viveri e giochi, sedie a sdraio, un mosaico di teli da spiaggia.

E decine di corpi ovunque, ammassati come in una vera località balneare: la solita vicina di ombrellone, di una certa età, che non sopporta niente e nessuno e si lamenta di ogni minima oscillazione; giovani in costume che giocano, leggono, si abbracciano, mangiano, bevono. Un cane passa tra i teli, guarda le banane, le annusa: preferisce la pallina da tennis, che segue con languore ed interesse, sperando nell’errore dei due giocatori che lasceranno cadere la pallina. Lui potrà approfittarne.
Tutto normale, caldo a parte, fino a qui. Ma le tre artiste lituane Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė et Lina Lapelytė, trio femminile, decidono di oltrepassare il labile confine tra realtà e fiction, in una forma lirica che si avvicina al teatro “anti-barocco”.
Troppo sole prosciuga l’acqua
Una melodia si spande e alcuni dei bagnanti della spiaggia artificiale cominciano ad intonare alcuni canti che, a leggere il libretto, sembrano solo all’apparenza cantilene quasi insensate. Poi, leggendo meglio e lasciandosi trasportare dalle melodie, si scopre l’inquietudine umana, la noia universale, la preoccupazione per un pianeta sempre più incline all’inospitalità, la minaccia climatica che incombe, e che questo caldo umido ci ricorda ancora con più terrore quanto sia vicina: “My eyelids are heavy/ My head is dizzy/Light and empty body/There’s no water left in the bottle”. In pochissime, e terribili, parole, una delle bagnanti, accompagnata dal coro dei suoi vicini di spiaggia, ci ricorda gli effetti del riscaldamento terrestre; troppo sole prosciuga l’acqua.
Tra inquinamento, detriti, spazzatura e radiazioni, l’intensa e accattivante performance lancia un grido d’allarme disperato e potente, celato da un’apparente semplificazione narrativa e corale. E lo spettatore, nel senso etimologico e letterale del termine, resta lì a guardare: assiste impotente alla scena, così come subisce altrettanto passivamente gli effetti disastrosi del cambiamento climatico.
Il delicato equilibrio messo in scena con estrema maestria dalla triade lituana conferma il carattere etico, politico e sociale dell’installazione-performance, esponendo con altrettanta delicata attenzione il corpo umano, che nella spiaggia manifesta tutta la sua fragilità cosmica.
Uno dei premi più ambiti della Biennale, un Leone d’Oro più che mai meritato.