Le albe sono strazianti

Dopo due anni di pandemia credevamo che l’inizio di una nuova stagione potesse finalmente arrivare. Non tutti, ma la maggior parte di noi si sentivano pronti ad affrontare la convivenza con un virus invisibile, sconosciuto all’inizio ma oggi ben noto, così tanto noto da poterlo affrontare faccia a faccia. Quella stagione però sta tardando, perché un altro virus ha attaccato molti essere umani: il virus dell’anaffettività, della prevaricazione e della violenza.
È il 24 febbraio ed è mattina presto: le truppe russe, sotto il comando di Vladimir Putin, invadono l’Ucraina. Assistiamo increduli e da lontano a quello che sembra riportarci tra le pagine dei libri di storia che spesso abbiamo studiato controvoglia; riconosciamo nelle immagini al telegiornale gli stessi volti stanchi dei nostri nonni e il rumore delle loro voci spezzate che raccontavano della loro infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti di noi hanno saputo distinguere l’essere umano malato, come lo è Putin, dall’essere umano succube e a quanto pare considerato “colpevole” soltanto per l’appartenere a una certa nazione, quella russa.
Oggi è il 24 marzo, siamo a un mese esatto dall’inizio del conflitto russo-ucraino, ma della primavera ancora non c’è traccia.
Il caso Nori-Dostoevskij
«Caro Professore, questa mattina il Prorettore alla Didattica mi ha comunicato la decisione presa con la Rettrice, di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in quanto momento di forte tensione».
Questo è il contenuto della mail ricevuta il 1° marzo dallo studioso Paolo Nori, che era stato precedentemente invitato a tenere un ciclo di lezioni su Fedor Dostoevskij per l’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Poco importa se la scandalosa censura è stata revocata nel giro di qualche ora; quella dinamica ha generato un dibattito acceso che ha dato voce a numerose riflessioni politiche, etiche, culturali, ideologiche. Se c’è qualcosa di davvero lontano dall’ideologia è proprio la letteratura. Che sia russa, francese o tedesca, la letteratura non ha nulla a che vedere con i fatti di cronaca, così come non ha nulla a che vedere con scenari storici di portata mondiale.
Che la decisione presa dall’Università Bicocca sia giusta o sbagliata, non è l’unica e più importante questione da dirimere. Sembra ugualmente, se non di più, sensato evidenziare chi ha ritenuto di censurare il corso su Dostoevskij: l’Università. È un fatto aberrante e grottesco proprio perché è soprattutto l’università il luogo in cui si ha libero accesso a tutti i tipi di conoscenza; il fatto che sia stata questa istituzione a scegliere di oscurare un corso di letteratura di un autore che oggi ha come unica “colpa” quella di essere russo rende la vicenda ancor più grave.
L’errore alla base è di matrice concettuale, come se si avvertisse l’estremo bisogno di giustificare l’esistenza di qualcosa (di un corso di studi nel caso specifico) attraverso il dogma di una funzione da svolgere. L’errore è che per la letteratura non c’è alcuna funzione.
La lettura di un classico, di un autore, di una poesia, ha funzione squisitamente personale e non ha funzione sociale; non educa, non insegna, altrimenti saremmo la società perfetta già dai tempi de Il Cantico delle creature! Non occorre dunque, cercare nell’opera un messaggio, una morale, né tanto meno un’etica da seguire.
Censura, dal lat. censura: la missione dello scrittore
«La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono. O, in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà a tenere il loro passo. Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte».
Le parole sopra riportate sembrano davvero appartenere ai giorni che stiamo passivamente vivendo, eppure risalgono al 1957, pronunciate da Albert Camus durante il discorso di premiazione al Nobel per la letteratura.
La Letteratura è a disposizione di tutti, degli allegri e dei disperati, e ognuno ne ricava il fine che meglio crede.
Sorge però un dubbio in questa vicenda: siamo proprio sicuri di esserci concentrati sul dettaglio giusto? E se l’attacco fosse stato rivolto inconsciamente a Paolo Nori invece che a Dostoevskij? Altrettanto grave sì, ma qualunque sia stata la motivazione non è riuscita a fermare lo scrittore che ha deciso per tutta risposta di rifiutare il dietrofront dell’Università milanese, facendo conoscere Dostoevskij in altra sede. D’altro canto, i più noti casi giudiziari in ambito letterario hanno coinvolto autori geniali, invidiabili appunto.
Ma chissà se qualcuno ha conosciuto “il russo” proprio dopo questo scandalo! A quel punto nessuno avrebbe più colpe, soltanto meriti.
Oggi abbiamo deciso di toccare più punti e tutti decisamente delicati; si è ricordato l’attacco fisico e violento da parte di Putin; si è ricordato l’attacco morale mosso contro la cultura e la letteratura russa; si è ricordato un clima di sospensione, di censura e di oscuramento verso tutto quello che sembra essere lontano dalla concezione di bisogno. Cibo e acqua sono bisogni primari, sostengono il corpo per la sua sopravvivenza; la Letteratura è un’esigenza e appartiene al corpo che dopo essere stato nutrito ricorda di possedere anche una mente.
Scriveva il poeta francese Arthur Rimbaud (1854-1891) «Le Albe sono strazianti». Da un mese ormai le albe per qualcuno sono tanto strazianti quanto le notti. Non è vero che la bellezza salverà il mondo, e non saranno Dostoevskj, Tolstoj o Čechov a salvarlo, ma là dove sappiamo riconoscerne la bellezza, forse un giorno essa saprà rendere qualche alba meno straziante.