La Mano di Georges Simenon: una moderna discesa agli inferi
Adelphi sceglie per una delle sue ripubblicazioni dei romanzi di Georges Simenon, affidandosi alla traduzione di Simona Mambrini, le fredde atmosfere de La mano, che l’Autore ha ultimato ad Èpalinges (Vaud) il 29 aprile del 1968, solo quattro anni prima di terminare la stesura di tutti i suoi romanzi. La mano, “abbandonata accanto al mio materasso sul parquet del living room”, è quella di Mona, simbolo per il protagonista di quello che poteva avere e non ha avuto. E poi ha avuto in parte, ma era troppo tardi, non era più ormai “la stessa cosa”. Forse. Ma per lui è così e questo lo condurrà alla rovina. O alla liberazione?
La mano: una storia crudele
Il contesto di quella che a Simenon stesso è sembrata una storia “crudele”, così ebbe a definirla, è l’ambiente ricco, esclusivo, dell’americana Brentwood nel Connecticut, e il dramma – perché di dramma, fisico, sociologico, psicologico si tratta – prende avvio durante una tempesta invernale. Il silenzio ovattato della neve, all’indomani della bufera, farà da contraltare ai pensieri urlati del protagonista, Donald Dadd.
Avvocato quarantacinquenne, marito e padre esemplare seppure di due figlie adolescenti sempre più distaccate, Donald conduce una vita “normale”. Beve, come tutti in quell’ambiente, ma non è l’alcol che innesca il cambiamento. È piuttosto qualcosa che ha visto ad un party. Un’immagine da cui discenderà un pensiero, poi l’effetto domino di tanti pensieri concatenati che prende il via, mentre è seduto su una panchina rossa in una rimessa durante la bufera, fino all’epilogo tragico che ovviamente qui non sveliamo. La tempesta di neve diventa la tempesta di un’anima che non si riconosce più e rimette in discussione l’intera sua esistenza. Con risvolti drammatici per chi gli sta intorno, a cominciare dall’amico di una vita Ray, con lui è alla festa, e delle loro consorti, la sua Isabel e Mona.
Ed è sempre Donald che registra e racconta in prima persona i fatti, ma non solo quelli di quella notte e dei giorni immediatamente successivi, ma i fatti della sua intera esistenza, la fatica improvvisamente registrata nel sentirsi costantemente giudicato dallo sguardo ceruleo limpido e calmo della moglie – quegli occhi chiari e inflessibili sono forse, in una eco autobiografica, quelli della possessiva figlia dello scrittore morta suicida, Marie Jo? –, la sorpresa ed il dolore di aver sempre voluto essere qualcun altro, di aver voluto e potuto – se solo avesse compreso prima – essere altrove. Perché anche lo scrittore avrebbe voluto essere, per sua stessa ammissione, quello che non era. Come scrive nelle Memorie intime, avrebbe voluto essere “tutti quegli uomini, quelli della terra e quelli del mare (altro attore principale della sua vita e dei suoi scritti, n.d.r.), il fabbro, il giardiniere, il muratore, e quelli che stanno abbarbicati alla famosa scala sociale, dal piccolo principiante al mio marchese, su e giù fino alla prostituta dei quartieri a luci rosse…. E al barbone che dorme sotto i ponti della Senna o negli angiporti”.
Non è letteratura, è vita
Come sempre Simenon, al pari di un entomologo che al microscopio esamina i suoi insetti, osserva dalla sua scrivania uomini e donne, il loro aspetto, che minuziosamente descrive, i paesaggi e le mura che abitano e poi il loro animo, e così l’evoluzione delle loro coscienze e le direzioni che prende il loro agire. Come sempre, il lettore resta avvinghiato dalla scrittura di questa introspezione come pure dalle conversazioni, volutamente banali in certi tratti di questo romanzo, tra personaggi che capiscono tutto, ma non se lo dicono, dai comportamenti instradati su binari manovrati, sembrerebbe, dal destino.
La cifra di Simenon è tutta qui: leggere le vite dei suoi personaggi, così diverse dalla propria esistenza, eppure riconoscersi in ciascuna di esse per quel tanto di universalmente umano che hanno. Non è letteratura. È vita. “Ho fatto immersioni subacque…..ho girato per il Mediterraneo a bordo di una goletta a vela…..ho indossato il frac e messo la cravatta bianca fino a cinque volte la settimana quando vivevo a Parigi… ho frequentato parecchio i relitti umani del quartiere Moufettard, nelle cui bettole, al primo piano, i vecchi dormivano ancora “alla corda”…Ho conosciuto banchieri, proprietari di giornali, produttori i cui nomi sono ancora sulla bocca di tutti, e imbroglioni di gran classe come Oustric, o la Hanau, o Stavisky; ho assistito, in alberghi di lusso, a partite a carte truccate da impeccabili signori, per spennare ricchi stranieri o industriali di provincia…Ho poi conosciuto ministri e capi di Stato. Non dovevo forse cercare l’uomo ovunque, a tutti i livelli della famosa scala?” (G.Simenon).