Obbedire al sole: la traccia di Josef Koudelka nel ritrarre le vestigia delle civiltà Mediterranee

A che servono i Greci e i Romani?
Parafrasando il titolo di un bel saggio di Maurizio Bettini, è da porsi una simile domanda alla quale forse Josel Koudelka, membro pluripremiato dell’agenzia Magnum Photos, ha già trovato una risposta. Il fotografo prova, infatti, a condividere con noi la sua risposta attraverso le oltre cento immagini di grandi dimensioni della retrospettiva a lui dedicata – presentata alla Bibliothéque Nationale de France di Parigi e ora a Roma, tappa unica in Italia – al Museo dell’Ara Pacis: ci indicano la via della civiltà, una questione di pazienza. Col tempo, a chi sa aspettare, a chi non cerca una utilità pratica e immediata delle cose e degli insegnamenti, maturano, nel nostro pensiero, nelle nostre coscienze, nelle nostre menti, i frutti dei lasciti di chi ci ha preceduti.
E Josef Koudelka è un fotografo paziente, che ha trascorso gli ultimi 26 anni della sua vita a fotografare i più importanti siti archeologici, oltre duecento, attraverso tutto il Mediterraneo. Perché? Sostanzialmente per la loro bellezza, perché meravigliosi, perché visitandoli, spesso da solo, come racconta, si sentiva bene.
Koudelka fotografa rovine, resti, vestigia di un tempo antico. La mostra si chiama Radici, ma che le radici che ha in mente l’artista non sarebbero qualcosa di sotterraneo, di ramificato, che ancori saldamente gli uomini di oggi all’identità culturale classica di quelli di ieri, ai loro miti, ai loro usi e costumi, è evidente. Seppure qualche vegetale incornici in alcune immagini i resti, attorcigliandosi ad una colonna o a un basamento o a un capitello, i marmi, i sassi, i macigni accatastati o rovesciati ritratti da Koudelka, i volti scolpiti nella pietra che si specchiano vanitosi nel suo obiettivo, ci parlano solo per chiederci di non dimenticare. Un appello a scegliere di conservare la memoria culturale di un patrimonio di bellezza, quello dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, unico e non replicabile, dove non tutto è più visibile e molto resta nascosto, enigmatico. E perciò stesso in tanti modi indagabile e interpretabile.
Sono tutti scatti in bianco e nero, in formato panoramico, del lunghissimo reportage itinerante realizzato tra Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro (Nord e Sud), Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania, Croazia, Italia. E, naturalmente, Roma. Panorami fissi, svuotati di ogni presenza umana – proprio da lui che per tanta parte della sua carriera ha, invece, fotografato avidamente uomini e donne, la vita, le feste, i balli, i teatri, gli artisti, la guerra, la morte – fissati per sempre nell’immobilità dei loro soggetti. Eppure, così vivi. Per via del tempo, del vento, della natura che li modella e li trasforma. E per via del sole, come spiega lo stesso fotografo. Nei magnifici paesaggi a cielo aperto, il suo lavoro si concretizza innanzitutto nell’attesa, aspettando la luce di un sole o di una luna che a volte lo benedicono con l’illuminazione giusta, a volte lo deludono. E lui obbedisce, obbedisce al sole, perché “non puoi dare ordini al sole”.
La vita stessa di Koudelka è stata itinerante, sempre in viaggio, per necessità e per il piacere della “scoperta”. Che poi è la scoperta, per lui, a venire prima di tutto. Muoversi, andare in giro, “scoprire” dove l’immagine lo stia aspettando. E poi l’emozione nello scattare proprio quella foto, quell’emozione che poi, una volta stampata – lo pensa Koudelka e lo dice nel cortometraggio del 2020 “Koudelka: Obey the Sun” diretto e prodotto da Coşkun Aşar, visibile nella mostra – non potrà provare eguale chi la guarda.
Evocative le parole di quello che Josef KoudelKa chiama il suo “credo”:
“Pretendere il massimo da me stesso e da quello che fotografo. A volte riesco attraverso la ripetizione. La ripetizione va bene, ma solo fino a quando non ripeti te stesso”.
Un inno alla vita piena, alla scoperta continua dell’altro da te e soprattutto dell’altro, infinitamente e potenzialmente diverso e possibile, te.
Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza.
In mostra a Roma
Museo dell’Ara Pacis, Via di Ripetta 180.
Fino al 16 maggio 2021
http://www.arapacis.it/it/mostra-evento/josef-koudelka-radici
Biografia di Josef Koudelka
Josef Koudelka nasce in Cecoslovacchia, a Boskovice, nel 1938. Il suo viaggio dietro l’obiettivo parte da una macchina fotografica 6×6 in bachelite e da ritratti di famiglia. Poi il passaggio ad una Rolleiflex nei primi anni ’60, quando verrà incoraggiato ad esporre a Praga, nel teatro del quale fotografava il dietro le quinte della produzione. La tecnica innovativa per le foto di scena, che continuerà a scattare per anni per vari spettacoli, gli varrà il Premio dell’Unione degli artisti cecoslovacchi. Nel 1961 consegue un titolo accademico all’Università tecnica di Praga (CVUT-České Vysoké Učení Technické), lo stesso anno della sua prima mostra. Inizia a lavorare come ingegnere aeronautico, a Praga e a Bratislava. Una serie di fortunati incontri gli aprono altri percorsi artistici da cui la decisione, nel 1967, di rinunciare alla carriera di ingegnere per dedicarsi completamente alla fotografia. Inizia a fotografare le comunità Rom, un progetto portato avanti con una sociologa, Milena Hubschmannovà. Testimone della Primavera di Praga, i suoi memorabili scatti degli scontri tra cecoslovacchi e sovietici e della gente nelle strade saranno poi pubblicati in forma anonima, clandestinamente inviati negli Usa. Distribuirà le immagini l’agenzia Magnum Photos, firmate con le sigle P.P., Praguer Photgrapher, per evitare rappresaglie contro di lui o la sua famiglia. Gli faranno vincere la medaglia d’oro Robert Capa dell’Overseas Press Club, mentre il presidente dell’Agenzia, Elliott Erwitt, userà alcune di esse per un cortometraggio, sempre garantendo l’anominato al fotografo, mentre Koudelka si trovava nel Regno Unito. È il 1970 quando lascia Praga con un visto di 3 mesi per fotografare le comunità Rom in Europa Occidentale. Ma non tornerà in patria, diventerà apolide. Gli concede asilo la Gran Bretagna dove resterà fino al 1979 per poi riprendere a viaggiare e a fotografare feste religiose e popolari e altri soggetti di vita quotidiana. Diventa membro associato della Magnum Photos nel 1971 e membro a pieno titolo tre anni dopo. La sua personale curata da John Szarkowsky si terrà al Museum of Modern Art di New York. Vince anche il Premio Nadar per il miglior libro fotografico per il volume sulle sue fotografie di gitani pubblicato da Robert Defire in Francia, dove si trasferirà dal 1980 al 1987. Sono gli anni che vedono anche la pubblicazione delle foto della Primavera di Praga a suo nome. Il passaggio alla fotocamera panoramica avviene per un progetto sui paesaggi francesi, mentre si susseguono mostre e premi che sanciscono il suo successo. Con il crollo del regime comunista si reca a Praga iniziando a fotografare nell’Europa orientale. La guerra per lui avrà poi anche l’aspetto del centro di Beirut, immortalato dalla devastazione bellica. Da lì in poi viene insignito di numerosi titoli e premi. Moltissimi i libri, mentre nel 2019 a Praga viene inaugurata una Fondazione a suo nome. Viene presentata proprio a Roma la sua prima retrospettiva, Caos, nel 1999, al Palazzo delle Esposizioni. Seguirà poi un suo progetto su Roma che culminerà nella mostra e nel libro “Teatro del tempo”. Nel 2013 a Marsiglia la sua prima mostra sui principali siti archeologici dell’Antica Grecia, di Roma, del Mediterraneo. Negli ultimi due anni, infine, la mostra Radici, in Francia prima ed ora nella sua tappa romana. La retrospettiva al Museo dell’Ara Pacis è accompagnata dal volume “Radici” pubblicato da Contrasto.