Il Quinto Esilio. Il tema mai esaurito dell’esilio nel romanzo di Boris Biancheri

Il rinnovato omaggio di una lettrice ad un signore garbato vestito di lino celeste.
Il diciannove luglio di (già) nove anni fa si spegneva – anche se alcuni non si spengono mai completamente – Boris Biancheri, l’Ambasciatore.
L’ho conosciuto da Presidente della Federazione in cui lavoro, una delle tante tappe della sua carriera, e ho fatto esperienza così del suo garbo non comune e della sua autentica gentilezza. Sono entrata davvero in contatto con lui, però, per il tramite della sua scrittura e qui mi piace ricordarlo con un libro, che è il racconto di una saga familiare e, attraverso di essa, il suo interrogarsi sull’identità dell’uomo come di un popolo.
Il titolo de Il Quinto Esilio, pubblicato da Feltrinelli a maggio del 2006, nasce – come lui stesso raccontava – dall’epilogo della storia: il volontario esilio della protagonista. Non sapendo dove e soprattutto a cosa ritornare sceglierà una vita “dentro” il carcere, da reclusa, rifiutando di rinnegare il proprio passato che le avrebbe restituito sì la libertà, ma non la propria identità. E cos’è un uomo, o una donna, senza di essa?
Finisce così, con l’inaspettato e ineludibile riscatto del proprio passato da parte dell’ultima discendente dei Von Grabhau, questo bel romanzo sui destini di un’aristocratica famiglia di “specialisti dell’esilio”.
Il racconto ricopre un arco temporale lunghissimo, secoli, in cui Biancheri ci porta a conoscere il capostipite, Konrad, o indulge sui tratti rassegnati di un altro componente della famiglia, Eduard. Molte vite, diverse tra loro eppure tutte egualmente marchiate a fuoco dal segno dell’esilio: in movimento dalla Pomerania al Baltico Orientale, dai paesaggi di Riga a quelli tedeschi e poi russi, dall’Italia agli Stati Uniti. Se voleva essere un romanzo storico, la grande Storia europea e mondiale ne attraversa ingombrante le oltre duecento pagine. Spinge all’azione i protagonisti nelle loro piccole/grandi storie personali, lascia che la subiscano, spesso senza comprenderla.
«Ero baltico, ora, in America, sono russo» dice Eduard, mostrando così non solo di essere lontano dalla patria, ma quasi di fare fatica ad individuarne una per sé. Confusione, rassegnata accettazione. Non per Sophie che, invece, comprende, ricorda e non rinnega ed anzi si aggrappa a quel suo passato per non rischiare di subire il peggiore dell’esilio: quello da se stessi. «Non sono… in grado di cambiare il passato… Quello che appartiene al passato è immutabile; i miei pensieri di allora sono immutabili. Non posso né cambiarli, né distruggerli, né far finta di non averli avuti». Altrimenti, sembra chiedersi: «chi mai sono io?».
Non solo Sophie. Sono le donne ad occupare saldamente la scena nella rappresentazione di questa famiglia di baroni solo esteriormente patriarcale. È alle figure femminili che Biancheri assegna le pagine più commoventi, quelle sui sogni impossibili da realizzare, o sugli amori, vissuti o infranti, o sul coraggio delle scelte. Tra queste la figura della madre, quella di Eduard, descritta come è, ma anche rivelata per come lui, il figlio, avrebbe voluto che fosse e il suo rimpianto. Pagina questa, si è detto, forse autobiografica, come forse in parte autobiografico è il tema scelto dell’esilio, lo stesso scrittore così spesso lontano da casa e in qualche modo così diversamente definito dalle sue plurime origini, Russia, Paesi Baltici, Italia.
Esistono tanti tipi di esilio e Biancheri – nato in Italia da padre ligure e madre russa, grande camminatore nel mondo in ragione della sua carriera diplomatica – vuole che traspaiano tutti tra le righe del romanzo. La geografia, come la storia, è ben presente nel libro, dove si allude ai suoi spazi, piuttosto che descriverli minuziosamente. Ma ci sono. Luoghi che sono ben di più che sfondi alle vicende dei protagonisti, piuttosto quinte di una scenografia che non hanno nulla di causale nel loro comporsi e ricomporsi. Così come dalla geografia sono prese in prestito tante delle parole usate: nord, sud, confini, fiumi, terra, mare, strade, rive, colline, campagne.
Storia e geografia, ricordi e vissuti personali, conoscenze, riflessioni, intuizioni squisitamente letterarie, tutto confluisce – condito dell’ironia dell’uomo che rende capace di leggerezza lo scrittore anche quando tratta di temi gravi – in un romanzo che si legge tutto d’un fiato e che, ora che Biancheri non c’è più, lo restituisce ai lettori quasi per intero.
Anche se chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerlo in uno scambio alla fine fatto di gratitudine, amicizia e affetto, ne ha un ricordo ben vivido, un ricordo d’estate, di un signore garbato vestito di un completo di lino celeste.