MArteLive. L’impermanenza dell’umano negli autoritratti di Iolanda Di Bonaventura

Abbiamo intervistato Iolanda Di Bonaventura, la vincitrice della sezione fotografia del MArteLive 2019, lo spettacolo totale tenutosi nel mese di dicembre a Roma, a cura della Biennale, un evento che si occupa di arte a 360° in un’atmosfera unica e suggestiva.
Iolanda Di Bonaventura nasce a L’Aquila nel 1993. La sua arte è lo specchio di se stessa, un modo per esprimere il proprio intimo in un connubio perfetto tra corpo e natura. Al MArteLive 2019 ha presentato Impermanence, un progetto artistico work-in-progress in cui si intrecciano panismo e discrepanza in una serie di scatti realizzati a seguito del terremoto che nel 2009 ha colpito la sua città natia.
L’artista crea una fitta interconnessione tra l’umano e le rovine intorno, invitando lo spettatore a riflettere sul rapporto che li lega. Essenza e intimità sono le parole chiave della fotografia di Iolanda, fatta di autoritratti minimalistici e illuminati naturalmente che mirano a guardarsi da lontano e a scoprire la futilità dell’estetica, l’essere appunto impermanenti.
Hai lavorato nel campo delle installazioni digitali, del videomaking e con altri strumenti artistici. Cosa ti affascina di più della fotografia?
Anche quando lavoro con altri strumenti io parto sempre dalla fotografia, inserendo quindi in tutti una base fotografica. I miei scatti non sono un modo di rappresentare la realtà esterna, bensì un espediente per mostrare il mio mondo interiore. Lavoro con l’autoritratto perché credo che per un artista sia essenziale dire la verità e ritengo che non ci sia una verità più reale e più vicina di quella che appunto rappresenta noi stessi. Parlare di noi è poi come parlare di tutti.
Impermanence crea un legame tra l’umano e le rovine intorno a sé, frammenti del terremoto del 2009. Com’è nata l’idea?
Io ho sempre lavorato con l’autoritratto e il nudo. Dopo il terremoto del 2009 quindi è nata l’idea di una mia connessione personale con l’evento e i luoghi, inserendo l’umano nella serie di frammenti intorno a sé. Impermanence è un tentativo di tenere insieme le cose che poi ha portato a questo muto dialogo tra quello che è vivo e quello che è morto. Per me non è importante la persona rappresentata, ma la sua interconnessione con l’ambiente.
La tua fotografia è pregna di riferimenti anche alla pittura (pose, giochi di luce e colori). C’è un maestro che ti ha ispirato particolarmente?
Io sono autodidatta, per cui non ho dei veri e propri punti di riferimento né in campo fotografico né pittorico. Un’artista che mi piace in particolar modo è Francesca Woodman, che scoprì a circa 14-15 anni e da lì mi si accese una lampadina che mi ha forse spronato a investire in questa strada. Sono però molto contraria alla divinizzazione di chiunque, per cui cerco di esprimere sempre e solo me stessa, non credendo nel concetto del mito. Anche a livello pittorico non ho dei maestri a cui mi ispiro ma, avendo fatto il liceo artistico, ho un bagaglio culturale che fa ormai parte di me e dal quale probabilmente attingo inconsapevolmente come un imprinting inconscio.
Stai già lavorando a qualche altro progetto?
Sì, ho diverse idee per il futuro e progetti in corso, che spero di portare a compimento al più presto. Purtroppo, l’emergenza sanitaria nazionale ha messo in stallo alcune iniziative a cui stavo lavorando, ma mi auguro che la situazione si risolva al più presto e che si possa ritornare alla nostra quotidianità.