Gino Rossi: il Van Gogh veneziano. Due mostre lo celebrano a 70 anni dalla scomparsa

Due mostre sono attualmente al rush finale per celebrare uno dei più dotati ma sconosciuti pittori italiani del Novecento: Gino Rossi.

Solo diciotto quadri in esposizione al Museo Bailo di Treviso fino al 3 giugno e solo ventotto a Ca’ Pesaro a Venezia fino al 20 maggio. Quanto basta a raccontare la storia di una vicenda umana e artistica fra le più affascinanti dei primi decenni del XX secolo. “Era il nostro Piero della Francesca” disse di lui l’amico Arturo Martini riferendosi non allo stile ma al rigore mentale con il quale Rossi affrontava la ricerca di un’arte nuova, per la quale nel 1906 partì per Parigi per poi proseguire in Bretagna suggestionato dalle opere di Gauguin.
Tornato a Venezia, dove era nato nel 1884, si stabilì nell’isola di Burano, una sorta di esilio consono al suo carattere schivo e polemico. Nel 1912 torna a Parigi, espone con Modigliani, al rientro a casa la moglie Bice anch’essa pittrice lo lascia. Nel 1916 parte per la guerra, ne vede gli orrori e la violenza, viene fatto prigioniero, esperienza che lo segna irreparabilmente. Segue un ventennio molto difficile, fatto di stenti, isolamento e povertà. Nel 1916 viene ricoverato per la prima volta e passerà il resto della sua vita tra gli ospedali psichiatrici Sant’Artemio di Treviso, il Gris di Mogliano Veneto e quello veneziano dell’isola di San Servolo. Morirà il 16 dicembre del 1947 a Treviso.
Paesaggi bretoni, vedute asolane e lagunari, e ritratti di gente umile, furono i suoi soggetti preferiti. Colori scuri: verde, blu, viola, marrone, nella sua tavolozza. Segni decisi, contorni marcati, pennellate violente. Non fosse azzardato, lo si potrebbe definire il Van Gogh italiano, sia per l’esistenza solitaria, sia per le lettere scritte agli amici implorando aiuto, sia per la malattia mentale, sia per l’uso di colori arbitrari come certe fronde arboree di un’ocra sfacciato. Se la sua era una personalità fragile, le sue opere sono cromaticamente forti, sostenute dallo studio della pittura di Van Gogh, Gauguin, Cézanne e alimentate dal clima d’avanguardia del palazzo veneziano Ca’ Pesaro, fucina di talenti quali Martini, Boccioni, Casorati. Un ritorno a casa, dunque, quello dell’esposizione “Gino Rossi a Venezia” curata da Luca Massimo Barbero ed Elisabetta Barisoni e che guarda all’innovazione nata e cresciuta dal 1908 ai primi anni Venti nell’artistico crogiolo di Ca’ Pesaro.

“Omaggio a Gino Rossi” al Bailo di Treviso, la mostra curata da Marco Goldin, è un percorso rappresentativo di tutti i periodi del pittore: da quello bretone a quello di Burano, da quello dei colli asolani del Montello, fino alle nature morte d’impronta post-cubista. Solo diciotto tele delle centotrenta in tutto rimasteci.
Cinzia Albertoni