Letteratura e realtà: un rapporto antico, ma spesso latente
Letteratura e realtà in che modo sono legate?
Da sempre si discute su quelle che debbano essere le funzioni del romanzo e della letteratura, in particolar modo su quelli che sono i suoi rapporti e le sue funzioni con la realtà. Ad esempio Viktor Borisovič Šklovskij, uno dei maggiori esponenti del formalismo russo che ha dedicato gran parte dei suoi studi allo straniamento, sosteneva che l’arte, e con essa la letteratura, ha l’obbligo di sconvolgere il fruitore a tal punto da fargli cambiare il punto di vista sulla realtà, distogliendolo così da quella che è una sorta di dittatura dell’abitudine. Un esempio possibile a tal proposito è quello di “Cholstomér”, racconto dell’autore russo Lev Tolstòj, in cui tutto è narrato dal punto di vista di un cavallo.
Nonostante quest’annosa questione, va comunque riconosciuto alla letteratura un ruolo chiave rispetto alle altre arti, ovvero quello di saper raccontare il mondo e tutto ciò che gli è correlato, in particolar modo, ovviamente, gli uomini e la società, anche tramite le storie apparentemente lontane dalla vita che ci circonda.
Sciascia nel 1963 già ci parlava di fake news
Il “Consiglio d’Egitto” narra le vicende di uno dei più grandi falsari della storia: Giuseppe Vella. L’ambasciatore del Marocco, nel dicembre 1782, si trova per via di una tempesta a Palermo. Il viceré Domenico Caracciolo convoca allora l’abate Vella per fare da traduttore e mostrargli, insieme a monsignor Airoldi, tutte le “cose arabe di Sicilia”. In questo modo si arriva ad un manoscritto nel monastero di San Martino, che viene però definito dall’ambasciatore Abdallah Mohamed ben Olman come una delle tante vite di Maometto, ma Vella, che aveva tra l’altro ricevuto nel frattempo alcuni benefici dal viceré, decide di tradurre volontariamente male, e afferma che si tratta di un codice arabo di grande importanza sulla storia siciliana. Vella viene incaricato della traduzione, ma decide di inventare di sana pianta, causa anche una tutt’altro che buona conoscenza dell’arabo, e crea così il “Consiglio d’Egitto”, con cui avrebbe tolto vari titoli nobiliari (altro protagonista è infatti un esponente illuminista, l’avvocato Di Blasi). Alla fine della vicenda Vella viene scoperto e mandato in carcere, mentre l’avvocato condannato a morte.
La realtà di qualche secolo fa non è poi così lontana da quella di oggi, dove la menzogna spesso riesce ad essere più efficace della verità. Nel XVIII secolo Vella, e di più l’avvocato di Blasi, speravano con questa bufala di rovesciare l’ordine costituito e fare una piccola rivoluzione siciliana, oggi si riesce ad influenzare le elezioni per il presidente americano. Il dato comune, che unisce saldamente i due periodi storici, è che in ogni caso si preferisce di gran lunga abboccare a determinate notizie che fanno scalpore, più che investire il proprio tempo per scoprire la verità, per la quale però ci vuole sempre un grande impegno. Inoltre, alcuni falsari moderni, i migliori ovviamente, riescono in qualche caso anche a diventare famosi, proprio come Vella, che nel 1785 riuscì addirittura a guadagnare una cattedra per insegnare l’arabo nell’università di Palermo.
Moravia racconta l’indifferenza moderna
Il romanzo pubblicato nel 1929 narra le vicende di una famiglia borghese composta dai due figli, Carla e Michele Ardengo insieme alla madre Mariagrazia. Più che narrare in realtà Moravia scatta un insieme di fotografie che mostrano e criticano quella che era la famiglia borghese del primo novecento, incapace di prendere vere decisioni, di interessarsi a questioni impegnate che siano oltre i cliché dettati dalla classe sociale a cui appartengono. Ciò che veramente conta è assicurarsi l’appartenenza a quello status sociale, anche se ciò richiede una totale indifferenza ed una sorta di vuoto interiore. Ipocrisia, incoerenza ed inconsistenza sono i tratti della famiglia Ardengo che si adatta passivamente a qualsiasi circostanza (Carlo vorrebbe ferire Leo, amante della madre e della sorella, ma riesce addirittura a dimenticarsi di caricare la pistola ed esce sconfitto anche da questa vicenda).
Le cose sono poi cambiate con il tempo, si pensi ad esempio al 68 ed ai giovani che manifestavano nelle piazze, ma se la storia è ciclica questa ne è la dimostrazione. Lentamente assistiamo al grande ritorno di una generazione, quella dei ventenni, che assiste in modo passivo agli eventi che la circondano. Così non prende parte alla vita politica, non si interessa della società, mentre i valori che dominano, almeno nella maggior parte dei casi, sono quelli che richiedono di rincorrere i soldi, divenire ricchi nel minor tempo possibile, mentre l’altra faccia della medaglia ci mostra ragazzi sempre più inconsistenti che idolatrano i trapper, il cui unico contenuto artistico, almeno nei testi, è il nulla, o meglio, fare i soldi, nient’altro. Non è questa ovviamente una celebrazione delle generazioni passate, assolutamente, ma se ci allontaniamo dal focus di Moravia sulla borghesia osserviamo che questa indifferenza ha, oggi, scavalcato qualsiasi distinzione sociale. Non è allora un caso se l’Italia figura tra i peggiori paesi europei a livello di istruzione e se nelle scuole italiane i professori sono diventati ormai zimbelli.
Dostoevskij conosceva il dramma tutto italiano delle slot machine
L’Italia detiene il record di slot machine: una ogni 143 abitanti, prima in Europa. La trappola del gioco d’azzardo conta un giro d’affari di almeno 96 miliardi, in progressiva crescita. Questa spesa grava sulle famiglie italiane, a tal punto da innescare poi un meccanismo vizioso per il quale le persone arrivano ad indebitarsi fino al collo, spesso anche per vie poco legali come lo strozzinaggio e la malavita.
Dostoevskij pubblicò “Il giocatore” nel lontano 1866, quando ovviamente le slot machine non esistevano ancora, ma il processo di dipendenza era lo stesso e l’autore lo conosceva molto bene, poiché compone l’opera proprio per ripagare i propri debiti di gioco. A narrare è lo stesso protagonista, Aleksej Ivànovic, precettore che per offrire denaro a Polina, la donna che ama, al fine di suscitare interesse in lei, finisce con l’indebitarsi e diviene totalmente dipendente dal gioco, che gli causerà anche la perdita di tutti i soldi. Dopo una serie di peripezie Aleksej viene a sapere che, nonostante la fuga, Paolina era sempre stata innamorata di lui e riceve anche dei soldi per poterla raggiungere, ma in preda totale del vizio, userà quei soldi per continuare a cercare la fortuna nei casinò «non solo avete rinunciato a ogni altro scopo, tranne quello di vincere al gioco: avete rinunciato perfino ai vostri ricordi. […] I vostri sogni, i vostri desideri quotidiani di adesso non vanno oltre il pair, il dispair, il rouge, il noire, le 12 cifre centrali e così via, e così via, ne sono certo!».
Montale ha votato lo scorso 4 marzo?
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Montale consegna la sua visione del ruolo del poeta a questi due versi epigrammatici, estratti dalla poesia “Non chiederci la parola”. Il premio Nobel per la letteratura nel 1925 esprime la totale assenza, ormai, del poeta come vate, si pensi a tal proposito a D’Annunzio, poco tempo prima. egli crede infatti che ormai questi non abbia più alcun privilegio morale o intellettuale all’interno della società, non è più la guida che era stata fino a prima per i cittadini che gli vivevano accanto. Egli vive quella stessa crisi esistenziale che ha invaso tutta la popolazione e che anche in Pirandello sarà espressa tramite ciò che Debenedetti denomina “L’invasione dei brutti”. Un’intera generazione che vive una situazione di disagio data dalla crisi dei valori ottocenteschi, non è un caso allora che molti rapporti con i propri padri siano conflittuali (La coscienza di Zeno), né che i pittori si rifiutino di rappresentare la realtà in modo oggettivo, preferendo invece un punto di vista totalmente personale (Cinque donne per strada di Ernst Ludwig Kirchner).
Se invece per un attimo facessimo delle parole di Montale quello che Seneca faceva con Virgilio, ovvero l’utilizzo delle citazioni estrapolandole totalmente dal loro contesto originario per utilizzarle a proprio piacimento, non sarebbe allora così forzato se le mettessimo in bocca a qualche politico attuale. Ebbene sì, poiché a quanto pare, togliendo certamente qualsiasi considerazione di tipo psicologico, sociologico, artistica o esistenziale, il vuoto è la chiave di lettura migliore per l’odierna classe politica, i cui membri sostanzialmente oltre gli slogan non sanno bene dirci chi sono o cosa vogliono.