FRANCO CALIFANO: Roma saluta l’ultimo dei romantici

Pasqua di saluti, di addii.
Ciao anche a te, Califfo, simpatica canaglia. Avete deciso di andarvene tutti insieme, Ti allontani in questi giorni di piogge sottili e malinconiche come le tue canzoni, forse sottobraccio allo chansonnier della Madunina Jannacci verso quel luogo di non ritorno. Forse là imbastirete duetti canori in coppia, tu in romanesco, lui in milanese. Due uomini e due storie artistiche diverse, ma entrambi fuori dagli stereotipi.
I romani ti volevano bene. Eri il nostro poeta cantore, quello che sapeva interpretare la nostra romanità più profonda coi tuoi versi che affondavano nelle radici della Città eterna, con gli amori struggenti vissuti nel bilico delle speranze e dei ritorni, sussurrati lungo i ponti del Lungotevere, mano nella mano “pe’ le strade de’ Roma co’ te”.
Impenitente latin lover, l’ultimo dei romantici che all’amore ci credeva ma che forse amava più profondamente “la sua libertà”.
Cantavi per noi il disincanto delle passioni del cuore, l’inevitabile parabola discendente delle storie d’amore dissezionate nel percorso della realtà cruda del quotidiano, come in quella tua canzone “Tutto il resto è noia”.
Ci hai riportato agli anni giovanili con la storica “Nevicata del ‘56”, le palle di neve su per i colli aventini imbiancati delle nostre prime speranze di ragazzi, infagottati con improbabili tenute da sci e slittini improvvisati.
Ci cantavi senza melensaggini i nostri amori adulti, dipanandoci sul filo della malinconia le fasi progressive di un amore che se ne va con “Ti perdo”.
Hai accompagnato Mia Martini con una delle più belle canzoni della sua carriera “Minuetto”, il compositore Bruno Martino nella nostalgia degli amori estivi con “E la chiamano estate”. Sono note che ci restano appiccicate dentro, indelebili, rigurgiti sentimentali di emozioni che non muoiono.
Divertenti quei tuoi poemetti brevi con episodi di vita vissuta tra il drammatico e il satirico, e le canzoni stornellate che raccontano la “Gente de’ borgata “. Quasi un Pasolini della canzone, entrambi trasgressivi ognuno a modo suo, entrambi poeti della tristezza esistenziale. Pasolini l’intellettuale, tu il Trilussa della canzone, quello che sa cantare la vita di periferia, le speranze della gente semplice:
“Core mio, core mio, la speranza nun costa gnente,
quanta gente c’ha tanti soldi e l’amore no…
E stamo mejio noi che nun magnamo mai….”
di Angela Grazia Arcuri
Roma, 31 marzo 2013.