Polveriera Donbass

“Donbass, una guerra nel cuore dell’Europa”, edito da Passaggio al bosco, è un libro che ha ormai 5 anni, ma che forse, per ragioni ovvie, ha senso (ri)leggere oggi più che mai. Si tratta di una raccolta di articoli scritti da reporter e volontari impegnati sul campo in quella che, ai tempi in cui sono stati scritti, era “una guerra che non fa rumore”.
Impressiona molto notare come già allora tra i pochi meritevoli di interessarsi a questo conflitto circolavano in nuce quei temi che oggi che oggi traboccano sulle pagine dei giornali nazionali: la guerra per procura volute dall’Occidente, l’accerchiamento di Mosca, gli interrogativi sulle rivolte di Majdan e ciò che ne consegue, l’avvicinamento di Kiev all’Unione Europea e alla Nato, lo scontro tra i nazisti di Kiev e i comunisti delle regioni indipendentiste, l’eventuale “finlandesizzazione” dell’Ucraina. Insomma, leggendo questo libro si capisce che c’era chi anni fa aveva già capito che non si trattava di una controversia marginale, ma che la posta in gioco fosse molto alta.
Sulla questione Donbass hanno trovato una singolare convergenza sia la destra identitaria che la sinistra più radicale, contribuendo a dar vigore a quel fenomeno da alcuni definito, spregiativamente o meno, con il termine di rossobrunismo. Visione forse un po’ bottegaia, ma che mantiene degli elementi di verità. Il rischio, in cui d’altronde alcuni autori cadono, è quello di cedere al fascino di Putin e di riconoscere in lui un’alternativa in quanto simbolo della negazione delle contraddizioni dell’Occidente. In questo processo di semi-beatificazione, per altro, si collegano in maniera piuttosto confusa argomenti tra loro molto diversi, dalla gender equality all’immigrazione in un “calderone” di dubbia intellegibilità.

Di grande pregnanza sono invece le pagine che ricostruiscono la storia dell’Ucraina, vera e propria cerniera tra il mondo slavo e quello russo e crogiolo di popoli ed etnie molteplici. Leciti, a fronte di queste precise narrazioni, risultano anche gli interrogativi sull’esistenza di un effettivo senso di comunità da parte degli ucraini.
Molto più dozzinale invece, va detto, è la descrizione di quanto accaduto nei Balcani degli anni ’90. Oltre a ignorare la complessità degli eventi, si sorvola sull’intera storia del Novecento europeo, almeno a partire dal primo conflitto mondiale, e si dà credito a tesi di chiara matrice cospirazionista come “la creazione di enclave musulmane nell’area balcanica” e che non possono fare a meno di tirare in ballo l’immancabile George Soros. Come se sei secoli di impero ottomano non fossero mai esistiti… Per meglio comprendere le vicissitudini di quei luoghi consiglio la lettura de Il giorno di San Vito di Joze Pirjevec.
La seconda parte del testo offre spunti di riflessioni interessanti alternati a slogan roboanti e letture schematiche proprie di una certa destra sovranista di casa nostra che non sfuggono nemmeno al contributo di Gianluca Savoini.
Anche in questo caso, soprattutto l’articolo di Marco Croce suggerisce previsioni particolarmente inquietanti lette a posteriori data la loro esattezza.
Confesso di avere intrattenuto un carteggio mail con l’autore della post-fazione, Alexander Dugin, che oggi molti definiscono l’ideologo di Putin, quando stavo lavorando alla mia tesi di laurea. Ai tempi Dugin in Italia lo conoscevamo in quattro e altrettanti andavamo ai suoi convegni quando passava da queste parti. Sono stato un precursore anche in questo. Non posso negare di aver guardato con una qualche simpatia al progetto eurasiatista che però, a più di un decennio di distanza, trovo particolarmente stantio soprattutto per l’incapacità di rinnovarsi del suo creatore. Nel saggio di Dugin si ravvisano vecchie parole d’ordine, i consueti autori cari alla Tradizione (Evola e Guenon), la solita distinzione manichea del mondo tra puri e corrotti.
Ad avviso di chi scrive, il limite di tanta retorica antioccidentale, in larga parte più che condivisibile, ha il limite di muoversi all’interno delle modalità comunicative e delle tecnologie proprie del cosiddetto blocco occidentale. Ho sempre pensato che l’arma che ha concesso al capitalismo di imporre il proprio dominio su altri modelli fosse stata la capacità di non annientare il dissenso, ma incentivarlo a fini speculativi, in tal modo volgendolo a proprio favore e stroncandolo sulla distanza. La vecchia storia dell’incendiario che muore pompiere. Auguro ai Ribelli di continuare a rimanere tali e non lasciare mai la via del bosco perché in un mondo di uomini sempre più “a una dimensione” mai ce n’è stato bisogno come oggi.