L’effetto collaterale

Mercoledì è un giorno strano per riposare. Eppure è così, questo è il mio unico giorno di riposo. Il letto di mercoledì si ricorda che sono sempre io e che –malgrado le mie assenze e i tradimenti con qualche materasso d’albergo- torno sempre da lui. Capita però che qualcuno –ignaro di questa mia strana consuetudine- mi chiami di primo mattino e mi costringa a staccarmi dalle lenzuola, anche se è (il mio) mercoledì. Oggi, ad esempio, sono stato buttato giù dalla telefonata di un ragazzo che sto aiutando per la maturità. Mentre il ronfo del mio respiro era ancora palese, lui elencava gli argomenti che insieme abbiamo deciso presenterà alla commissione d’esame. Il tema centrale è “Il progresso nella società contemporanea”. Ormai è tutto pronto, lui mi sembra–con mia sorpresa- pure abbastanza preparato. Ha solo paura di non saper rispondere alla domanda più banale: “Che cos’è il progresso?”. Gabriele non saprebbe rispondere perché dovrebbe mentire, e a 18 anni non si dicono bugie sulle cose importanti. Dovrebbe dire che il progresso è la nostra identità, è ciò che è stato fatto per arrivare ad essere felici e a come vorremo essere in futuro. Ma proprio non riesce a capire un passaggio: “Ma perché allora c’è così tanta povertà?” mi chiede. “La gente dice che non c’è lavoro, quegli altri poi… che vanno sempre a manifestare…”.
Avrei potuto rispondergli in parecchi modi, ma il cinismo -che da un po’ si sta insidiando in qualche cunicolo delle mie vene- mi ha permesso di essere franco: “È come quando prendi una medicina: ti serve per stare meglio, ma a volte ti fa stare peggio. È l’effetto collaterale”.
“E secondo te” –mi ha chiesto- “abbiamo fatto bene a prenderla ‘sta medicina?”.
In questo caso il mio cinismo ha dovuto fare i conti con la decenza ed ho esitato.
Perplessità amletiche di questo genere non lasciano spazio ai dentro o fuori. Inutile discutere di utopistiche idee di un ritorno ai tempi in cui “si stava meglio quando si stava peggio”. Inutile perfino sognare ad occhi aperti davanti alle sceneggiature di Woody Allen in cui –come “Midnight in Paris”- il protagonista desidera talmente tanto vivere la belle époque che finisce per ritrovarcisi dentro. Quel che è fatto è fatto. Non si torna indietro. Il progresso è stata la nostra medicina, ci siamo curati e probabilmente nell’immediato siamo stati anche molto meglio. Le conseguenze, gli effetti collaterali, si vedono soltanto adesso.
La mancanza di lavoro, la crisi globale, il debito pubblico, sono tutte definizioni che fruttano dall’albero dei nostri tempi. Tempi in cui il progresso ci ha permesso di fare tante cose in meno tempo, ma contemporaneamente ci ha catturati in un vortice da cui non riusciamo più a dedicarci a noi stessi. Di capire chi siamo e cosa vogliamo. Di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. In tempi così, in cui veniamo letteralmente bombardati dalle informazioni esterne, non riusciamo ad analizzare la realtà. Non ci rendiamo conto che si poteva fare qualcosa davanti allo scempio politico di questo Paese che ogni volta ci è palesato davanti come “il nuovo che avanza” per poi rivelarsi sistematicamente come l’ennesima fregatura. Ci saremmo fatti delle domande, avremmo cambiato o perlomeno tentato di cambiare la nostra sorte, troppo spesso messa nelle mani di chi versa lacrime e sangue e poi mangia caviale. Avremmo preso a calci nel sedere un signore che per venti lunghi anni si è rivenduto per quello che non era, mentre molti dei suoi uomini facevano patti con la mafia. Avremmo sicuramente chiesto molto di più a chi dice di voler rottamare, anche se l’unica vera rottamazione che ha compiuto finora è stato il sistema scolastico italiano.
Abbiamo dimenticato il valore della felicità perché siamo alla costante ricerca di qualcosa che a conti fatti non esiste.
Non esiste felicità in una scuola in cui i presidi premiano gli insegnanti che secondo loro sono i più bravi, non esiste felicità in un Paese con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa, non esiste felicità in una città che è infetta dal virus della corruzione.
Inseguendo il progresso abbiamo inseguito il miraggio del dio denaro, ma non abbiamo considerato che la felicità è ben altra cosa. Solo l’altro giorno ho incontrato un contadino altoatesino della mia età. Bello come un principe, e con le dita sporche di terra. Volevo convincerlo a partecipare ad una nota trasmissione televisiva dove si vincono anche molti soldi, ma lui –serafico- mi ha sorriso in faccia e mi ha detto: “Grazie, gentilissimo, ma sono già felice così”.
È una frase che sempre meno sento dire….”sono felice”.
Difficile rispondere alla domanda di Gabriele. Il progresso è una medicina che andrebbe presa a piccole, piccolissime dosi. Questo forse avrei dovuto rispondergli. O forse –banalmente- avrei potuto raccomandargli di fare l’esame, spegnere il cellulare, andarsene al mare e ricordarsi di essere felice.
Luigi Carnevale
10 giugno 2015