Profùmati la testa

Amare sé stessi è importante. Certo, l’amore del prossimo è una delle cose più nobili di cui sia capace l’essere umano, forse quella che struttura più di ogni altra la società umana, radicata com’essa è in quei sentimenti famigliari che suppongono cura, attenzione, dedizione senza ritorno. Eppure anche l’amore verso sé stessi è fondamentale: perfino il comandamento dell’amore del prossimo, prescrivendo di amarlo «come sé stessi», ha bisogno di quel presupposto di stima di sé, cura di sé, capacità di ascoltarsi e di concedersi ciò che è bello, buono, vero. Pensare che la propria sofferenza, il proprio disagio, la propria privazione sia di per sé un bene per gli altri è una deviazione spirituale gravissima, che a volte merita anche di diventare l’oggetto di una buona terapia. Che se ne fanno mai gli altri della sofferenza di qualcuno? Ogni persona anzitutto deve dunque volere bene a sé stessa.
Sono questi i pensieri elevati che mi vengono in mente ogni volta che vedo qualcuno che sul proprio computer usa Windows e si lamenta. Sia ben chiaro: ci possono essere buoni motivi per cui si deve usare Windows, o in altri casi OSX, o forse il vecchio DOS, qualcos’altro ancora. Chi fa un uso professionale del computer sa benissimo che alcuni programmi esistono solo su alcune piattaforme, e se è necessario usarli si è dunque vincolati. Oppure lo si può usare per abitudine, per poche cose limitate, e non trovare particolari problemi. Ma usare Windows senza che vi sia un motivo di questo tipo (e per la maggioranza delle persone è così) significa farsi del male. Un virus mi ha bloccato? l’antivirus mi rallenta il computer? l’ultimo aggiornamento mi ha cambiato tutto e non capisco più nulla? i bottoni mi si sono appiattiti e non capisco più che cosa caspita posso cliccare e che cosa no? il computer prende strane iniziative che non capisco? con la nuova versione del sistema operativo mi sparisce il pulsante di Start? per configurare la rete devo immergermi in menù più profondi della fossa delle Marianne? cerco un programma nel menù e mi compare la faccia sorridente di Berlusconi? voglio spegnere il computer e passano venti minuti per aggiornamenti che non ho mai chiesto? ogni mese che passa il computer mi diventa più lento finché mi convinco che devo comprarne un altro? infilo una chiavetta uguale alle mille che ho già usato e il computer frulla per mezzo minuto per «istallarla»? nei nuovi programmi mi sparisce il menù e vagolo per un minuto a cercare come si stampa un documento? Si può mettere la mano sul fuoco: se qualcuno dice queste cose vuol dire che usa Windows.
Ascolto, spiego che se non si è contenti la soluzione è facile: basta lasciare per sempre Windows e installare un sistema operativo un po’ migliore. Io consiglio Xubuntu: un sistema Linux, gratuito, facilissimo da istallare, stabile, supportato dalla comunità di Ubuntu, adoperante Xfce, l’ambiente grafico più prevedibile, semplice e conservatore che esista: esiste da vent’anni, e in ogni nuova versione ha solo introdotto graduali miglioramenti, senza stravolgere nulla e senza fare mai esperimenti sulla pelle degli utenti. Io lo uso come unico sistema da cinque anni e sono contento. È perfetto? Tutt’altro, ogni sistema Linux ha i suoi problemi, ma nessuno dei difetti tipici di Windows. In genere a questo punto odo un sospiro: «Sì… ma poi come faccio? È compatibile?» Allora bisogna spiegare: che cosa significa «compatibile»? Se intendi «può funzionare sul mio computer», la risposta è al 90% sì; se intendi «posso leggere e scrivere documenti nei formati più comunemente usati», la risposta è al 100% sì; se intendi «posso usare gli stessi programmi, o simili, a quelli che ora uso», la risposta è al 100% sì (fatti salvi i casi accennati prima), e tutto funzionerà in maniera incomparabilmente più veloce e più prevedibile (ora sto scrivendo su un netbook di sei anni fa, e tutto è velocissimo). In genere a questo punto odo un secondo sospiro: «Ma in Linux bisogna scrivere tutti i comandi, è difficile…». Allora spiego che non è vero, semmai talvolta con Linux posso fare con un comando ciò che altrimenti ha bisogno di cento click, ed è un vantaggio. Terzo sospiro: «Eh sì, dovrei…». E dopo qualche settimana: un virus mi ha attaccato, l’antivirus mi rallenta il computer, non capisco più nulla eccetera (vedi sopra).
Perché farsi del male? Certo, qualsiasi esperto di marketing spiegherebbe facilmente il successo di Windows, la stragrande maggioranza dei computer viene venduta con Windows preistallato. Ma continuo a meravigliarmi di come alla fine non vinca un poco di amore di sé, di voglia di comodità, e piuttosto che impiegare un mezzo pomeriggio a cambiare sistema operativo si preferisca occupare infinite ore, continuamente, ad irritarsi, a lamentarsi, a combattere con i soliti, eterni, ricorrenti problemi. È vero che Windows è preistallato: ma se su una sedia sono posati cinque chiodi li tolgo, il fatto che li ho trovati lì mica è un buon motivo per lasciarceli e sedermici sopra.
A meno che la spiegazione sia un’altra. È vero che la mia sofferenza non fa bene a nessuno, però le religioni sanno che in vista di un valore spirituale più alto si può scegliere volontariamente una privazione: il caso più noto è il digiuno. Forse è questo il motivo per cui inconsciamente tanti continuano a voler soffrire con Windows? Non lo escludo, e nel dubbio faccio un rispettoso passo indietro. Però vorrei ricordare che Gesù, parlando del digiuno, invitava coloro che lo praticano a nasconderlo: «Quando digiunate, non assumete aria malinconica […] Tu, quando digiuni, profùmati la testa e làvati il volto». Insomma, se la sofferenza viene volontariamente scelta, va vissuta con perfetta letizia. Quando un virus ti blocca tutto, quando sparisce il pulsante di Start, quando il computer ti è diventato lento come una lumaca, quando non capisci più nulla: profùmati, vèstiti a festa, sorridi!