Sei bellissima
[…] Io mi vestivo di ricordi
Per affrontare il presente,
E ripensavo ai primi tempi
Quando ero innocente,
A quando avevo nei capelli
La luce rossa dei coralli,
Quando ambiziosa come nessuna
Mi specchiavo nella luna,
E lo obbligavo a dirmi sempre
Sei bellissima
Sei bellissima
Accecato d’amore
Mi stava a guardare
Sei bellissima
Sei bellissima
Ma come può venire in mente di usare la canzone «Sei bellissima» come colonna sonora di un filmato pubblicitario per una linea di prodotti cosmetici chiamata «Bellissima»? Quasi non credevo alle mie orecchie quando qualche tempo fa per caso lo vidi alla televisione. È una delle canzoni italiane più tristi mai scritte, con un’interpretazione eccellente (da parte di una Loredana Bertè ancora agli inizi della carriera) che, pure se non si seguissero troppo le parole, non dovrebbe lasciare dubbi sulla tonalità cupa della storia raccontata. «Sei bellissima» sono le parole che la protagonista non riesce a dimenticare, che continuano ad ossessionarla ora che tutto è finito, e che ricordano che ogni storia di vero amore infranta, per quanto nel momento in cui la si vive possa essere colma di ambiguità e stranezze, lascia una ferita senza fine. Il tempo non basta a guarirla, come vorrebbe una consolatoria saggezza popolare. Negli affetti si investe tutta la propria vita, e quest’investimento rimane in un certo senso per sempre.
Ma come può venire in mente ad un pubblicitario di augurare subliminalmente alle donne: comprate «Bellissima» e soffrirete così? Escludendo la possibilità che la linea «Bellissima» voglia sfondare presso le malinconiche, ho rapidamente formulato alcune ipotesi: forse, passati quarant’anni dalla pubblicazione della canzone, la tipica destinataria della pubblicità non la conosce neppure; forse, anche «Sei bellissima» fa parte delle canzoni innumerevoli volte sentite, mai però ascoltate con attenzione; forse, siamo così abituati al «taglia e incolla» e disabituati al discorso che un singolo frammento di una canzone può essere estratto per significare una cosa completamente diversa da quella originaria. Forse.
Eppure qualsiasi ragionevole spiegazione non toglie un retrogusto amaro. Un grido di dolore (certo immaginario e poetico, ma identico ad innumerevoli reali) usato per smerciare prodotti di bellezza. Come se di fronte agli ingranaggi di questo mondo (pubblicitari ed economici, ma non solo) pure i più veri e profondi sentimenti umani, pure la felicità e la sofferenza, fossero soltanto carburanti da consumare e bruciare per far andare avanti la macchina, e proprio per questo dovessero essere dimenticati o dissimulati nella loro realtà.
Coincidenza: i quarant’anni della canzone di Loredana Bertè sono, con appena qualche mese di differenza, anche i quarant’anni dell’epocale referendum sul divorzio in Italia. Di fronte ad una generalizzata soddisfazione dello schieramento progressista, Pier Paolo Pasolini fu la voce stonata. Il divorzio un diritto civile? Certo. Ma in quell’occasione, aggiungeva con foga un po’ apocalittica Pasolini, non avevano vinto i diritti civili. Aveva vinto invece la televisione, con il modello di vita consumista ed edonista che essa prepotentemente promoveva sulla pelle delle persone. Ciò che si era imposto era insomma soltanto un modello di rapporti umani usa-e-getta. Se davvero Pasolini avesse del tutto ragione non è questione che possa essere affrontata qui. Ciò che invece vorremmo chiederci è se dietro la sua denuncia non vi fosse un’altra verità, appena più nascosta ma forse ancora più importante: che il “consumismo” può prosperare solo quando i sentimenti personali vengono censurati. Talvolta si dice che oggi ad essi viene data un’importanza eccessiva: a me pare il contrario. I sentimenti sono per eccellenza ciò che non dovrebbe essere oggetto di consumo. Il sentimento è anzi contrario ad ogni ideologia, perché permette di dire: ora sto soffrendo, oppure ora sto provando gioia, senza dover previamente consultare il copione scritto da altri (commerciale, ideologico, politico, religioso) in cui c’è scritto se in quella occasione tu devi essere triste o contento.
Ovviamente il sentimento non è tutto, perché esso è ambiguo, e poi si struttura in affetti e decisioni: ma negarlo è il primo passo dell’ideologia. Mi pare che oggi questo sia un pericolo reale. Non è un caso che, anche nelle sofferenze più lancinanti, e non per legittimo pudore, capita di sentire che «tutto va bene», che «era meglio così», che «è stata un’esperienza». No, nessun «fallimento». Come se si sentisse il dovere di adeguarsi a ciò che qualcun altro (fosse pure qualche illuminato psicologo) ci ha insegnato, ad una cultura in cui l’angoscia di una donna abbandonata è buona per vendere una spazzola.
Oppure forse bisogna ringraziare questa bizzarra pubblicità: forse potrà spingere a riflettere e a prendere più sul serio la sofferenza umana, a non far finta che essa non esista.
Se pesco chi un giorno ha detto
Che il tempo è un gran dottore
Lo lego a un sasso
Stretto stretto
E poi lo butto in fondo al mare.
Son passati buoni buoni
Un paio d’anni e di stagioni,
Ho avuto un sacco di avventure,
Niente di particolare,
Ma io uscivo a cercarti
Nelle strade fra la gente,
Mi sembrava di voltarmi
All’improvviso
E vederti nuovamente,
E mi sembra di sentire ancora
Sei bellissima
Sei bellissima
Accecato d’amore
Mi stava a guardare
Sei bellissima
Sei bellissima