Un mondo senza patata

Imprenditori belgi, state dormendo? L’Italia sta subendo una pacifica e piacevole invasione di catene di friggitorie olandesi, dove (con iniziale sorpresa degli italiani) si vende un’unica cosa: patatine fritte. Sbucciate, tagliate, fritte e salate davanti agli avventori, accompagnati dall’immancabile maionese. Ma questa è proprio la specialità belga, è il primo pasto che pretendo di fare quando metto piede nella terra del re Filippo e della regina Matilde. All’Expo di Milano si segnalano vendite di quintali di patatine fritte, e sono quelle belghe, ovviamente, accompagnate dall’altrettanto ottima birra belga. In mancanza di friggitorie belghe, però, ci si può contentare di quelle olandesi (perfino mia moglie belga si accontenta).
L’ultima volta che siamo stati ad una di queste, c’è stato qualcosa però che mi ha molto stupito. All’interno del piccolo locale campeggiava una grande scritta: «Potresti immaginare un mondo senza patata?». Non è il motto pubblicitario che mi ha meravigliato. Mi ha colpito invece il fatto che, contrariamente a quanto avrei fatto qualche anno fa (anzi, contrariamente a quanto facevo qualche anno fa, di fronte ad identici espedienti pubblicitari), non ho reagito con irritazione: anzi, ho avuto un istintivo sorriso. A volte capita di meravigliarsi di una propria reazione! Proprio per questo ho cercato di capirla. Forse con l’età si diventa più tolleranti? forse la mia sensibilità morale si è abbassata? Forse. Però pensandoci bene ci sono almeno due cause sicure.
La prima è che sono stanco della cappa di politically correct che ormai grava su molte cose, e in particolare su ciò che riguarda il sesso. Un premio Nobel dice che nei laboratori rischi di innamorarti delle belle colleghe? un’azienda fa la pubblicità ai suoi pannolini utilizzando gli schemi delle favole dei fratelli Grimm? una marca regala i sensori per il parcheggio a chi compra un’automobile l’8 marzo? un professore dell’Università di New York chiama gli studenti «Mr» e le studentesse «Miss»? una comica fa l’imitazione delle politiche italiane? un blogger pubblica una foto della sua bimba con un vestito rosa? una marca di felpe fa la spiritosa scrivendo nelle istruzioni di lavaggio «Dalla alla tua mamma»? un’azienda di giocattoli pubblica un libro in cui la sua famosa bambola (capace di fare un milione di cose come 007) per programmare un computer ha bisogno dell’aiuto di un collega? Queste cose e altre simili sono molto diverse tra di loro: a seconda dei casi le definirei ovvie, lecite, insignificanti, di dubbio gusto, di cattivo gusto. Invece hanno occupato pagine di giornali come esempi di deprecabile sessismo, da condannare e proibire (e infatti i colpevoli sono stati costretti a qualcosa come una pubblica abiura: solo il blogger ha eroicamente resistito). Anch’io devo essere cauto: nella mia Università apposite linee guida m’invitano a non usare l’espressione «uomo della strada» (perché è sessista), a non dire «Mario, Francesco e Giovanna sono arrivati» (perché è sessista), a non dire «signorina» (perché è sessista), a non dire «la poetessa» (perché è sessista). Il «Codice di condotta per le prevenzione delle molestie sessuali e morali», similissimo a quello esistente in innumerevoli altre istituzioni, usa definizioni così ampie da far rientrare nella molestia sessuale praticamente qualsiasi parola o azione che si rivela non desiderata (per esempio un corteggiamento tra colleghi, o forse anche solo dire: «Alfreda, come stai bene con questo tailleur!»). I trasgressori sono deferiti alla/al Consigliera/e di Fiducia, e dopo ad una Commissione disciplinare ad hoc (non quella normale dell’Ateneo).
Qualcuno dirà: questa appunto è la lotta al sessismo agli stereotipi sessuali! Nelle intenzioni certo sì. Il problema è che, non avendo un’idea chiarissima di che cosa sia maschio e che cosa sia femmina (e chi ha in proposito un’idea chiara?), nel dubbio censura non solo ogni scherzo, ma anche più o meno su tutto ciò che può ricordare che gli esseri umani sono divisi in maschi e femmine, e che la storia umana (e la parola umana) è costruita su questo. Ma la censura non è quasi mai una buona cosa, per i diritti e la dignità di chicchessia, e alla fine si ritorce anche contro le cause che dovrebbe sostenere. Controprova: è forse un caso che i primi paesi in cui la legge ha stabilito la piena parità tra i sessi (non sempre di fatto realizzata, beninteso) sono anche quelli in cui c’è una lunga tradizione di libertà di pensiero e di parola? Per esempio, sarei curioso di sapere che cosa ne pensa Malala Yousafzai, di sapere se il suo cruccio è di essere chiamata in Gran Bretagna «Miss Malala», e se ci consiglierebbe di andare avanti su questa strada di polizia morale e di tribunali speciali. Il motto della friggitoria è di dubbio gusto? Certo che lo è. Ma sono certo che il mio sorriso è stato anche provocato da un senso di sollievo nel vedere che qualcosa riesce ad eludere la censura.
Ma c’è anche un motivo più profondo per cui quel motto con il suo doppio senso non mi ha scandalizzato troppo: il fatto che involontariamente esso dice qualcosa di serissimo. È la stessa cosa che disse Gustave Courbet con il suo L’origine du monde, il quadro che entrò nella collezione privata del grande Jacques Lacan, alla sua morte venne acquisito dallo Stato francese e ora può essere ammirato nel bellissimo Musée d’Orsay. L’origine del mondo è lì, e dunque un mondo diverso è impensabile. Tutti i tentativi di pensarlo, e di farlo, portano (questi sì) alla disumanità, perché quell’origine al massimo si può nascondere, ma continua ad esserci. Per esempio si può nascondere legalizzando quella moderna forma di vendita di sé che è la maternità surrogata, in cui un bambino sembra emergere miracolosamente da un documento burocratico. Ma quell’origine, checché ne dicano le carte, continua ad esserci. E allora: no, non potrei immaginare un mondo senza patata, e fortuna che almeno nel motto di una friggitoria questo può essere detto.
A proposito: le patatine belghe sono molto buone non solo per la qualità della materia prima, ma anche perché vengono fritte due volte a temperature diverse (la prima volta per cuocere l’interno, la seconda per la doratura); e per non essere sessisti secondo le suddette linee guida bisogna dire «la poeta».