Cinque anni di Bergoglio: è tempo di bilanci

Oggi ricorre il quinto anniversario del pontificato di papa Francesco, iniziato appunto il 13 marzo 2013. Cinque anni intensi, per niente scontati, attraversati da numerosi stravolgimenti, a causa dei quali il pontefice è stato ampiamente criticato, spesso anche da parte dei “suoi”. Come è avvenuto nel caso dell’Esortazione apostolica postsinodale, Amoris Laetitia (2016), considerata portatrice sana di eresia, perché troppo accondiscendente nei confronti delle famiglie non tradizionali, colpevoli di aver rotto il vincolo cristiano del matrimonio. Se l’intenzione di Bergoglio era quella di avvicinare le generazioni più giovani alla fede, ciò che praticamente ne è scaturito sono sette accuse di eresia, da parte di una notevole parte di clero.
Per questi stessi motivi però il pontefice è riuscito a far amare la sua immagine. È il papa dei poveri, degli ultimi, degli emarginati e proprio da questi riceve largo sostegno.
È un papa particolarmente presente sulla scena politica internazionale, partecipe sui temi che stanno spaccando la società. È quindi un papa che divide, perché se da un lato tenta di liberarsi dall’immagine della Chiesa-Istituzione, sempre meno casa e ricovero di accoglienza, dall’altro lato, di tanto in tanto, delude le aspettative dei suoi fedeli e tradisce i principi del suo pontificato. Insomma, è tempo di bilanci.
Raramente i bilanci riguardano le questioni teologiche e spirituali, trattano sempre di economia, politica e relazioni internazionali. Le religioni, però, vivono di politica; sanno vivere di scelte e strategie politiche, di manovre economiche e gestione delle risorse. Ogni grande istituzione è retta da micro-poteri invisibili e diversificati, che costantemente interagiscono e faticano per mantenere in funzione la macchina pubblica. È cosa ovvia fare bilanci di governo e di mercato, quindi perché sollevare la Sante Sede da questo onere, se questa è tanto governo, quanto mercato?
Argomenti questi di forte impatto sociale, soprattutto se considerati in un periodo storico segnato dalla più dura recessione economica che il mondo occidentale ricordi. Periodo nel quale la Chiesa avrebbe l’obbligo di fare da scudo al disagio sociale e al disfacimento della persona, intesa come individuo avente diritto alla sua piena realizzazione.
A differenza del dimissionario Benedetto XVI, Francesco è apparso fin da subito come una figura positiva e amorevole: caldo nella sua ‘argentinità’ e rassicurante nei modi e nei tratti. Attento alle esigenze e alle speranze comuni delle persone comuni. Il nome che ha scelto ne è stata subito testimonianza, ma nel concreto i due pontefici in cosa effettivamente divergono l’uno dall’altro? Eccezion fatta della croce di metallo al collo, le riforme economiche vere come stanno procedendo?
Francesco ha ereditato una Chiesa buia e fin da subito, essendone perfettamente conscio, ha voluto rendere più lineari e trasparenti i suoi movimenti, partendo dallo Ior, l’Istituto per le opere di religione, riformando la sua amministrazione finanziaria, in seguito a numerosi scandali riguardanti connubi tra potere politico e gerarchie ecclesiastiche. Come spiega bene L’Internazionale, «lo Ior non ha sportelli, non ha bancomat al di fuori del Vaticano, non ha filiali: si appoggia da sempre su altri istituti per operare, per questo ha bisogno di accordi bilaterali con altre banche sparse per il mondo e di intese in campo fiscale ma anche diplomatico con governi e stati». La realtà finanziaria dello stato pontificio, non è ovviamente gestita dal solo Ior, il quale riesce a manovrare soltanto una parte del patrimonio, per la precisione circa sei miliardi di euro. L’altro ente che amministra il patrimonio della sede apostolica è l’Apsa, che nello specifico gestisce gli investimenti finanziari e immobiliari del Vaticano, tramite varie società controllate in Svizzera. «È uno degli scrigni della Santa Sede capace di funzionare, fino a qualche anno fa, come una banca presso la quale avevano il conto non solo qualche cardinale autorizzato, ma anche diversi amici degli amici, uomini dell’alta finanza, consulenti di questo o quel dicastero».
Fuori dalle dinamiche meramente materiali, ma da esse non necessariamente autonome, Francesco si è impegnato in prima persona nell’incontro con i socialmente confinati: la lavanda dei piedi dei detenuti nel 2017 e l’incontro con i profughi, definiti dal pontefice “lottatori di speranza”, all’Hub migranti di Bologna.
La visita ad Amman, Betlemme e Gerusalemme durante il pellegrinaggio apostolico in Terra Santa, nel 2014, è stato uno dei momenti più significativi di questi cinque anni, simbolo emblematico dell’apertura alla fede, indipendentemente dalla religione e dal suo Dio.
Ad abbracciare le spiritualità del mondo anche il Giubileo straordinario (8 dicembre 2015 – 20 novembre 2016): l’anno santo della remissione dei peccati, della riconciliazione e della penitenza, sentito come un’emergenza umanitaria. Bergoglio ha anche istituito la prima Giornata Mondiale dei Poveri.
L’enciclica Laudato sii (2015) è dedicata al rispetto dell’ambiente, tratta di ecologia come studio dell’oîkos, ovvero della casa di tutti, della cosa comune. Dall’inquinamento dei rifiuti al riscaldamento globale, ai migranti abbandonati, dall’acqua come diritto fondamentale al dovere di rispettare la biodiversità
I principi della rivoluzione misericordiosa sono ineccepibili, ma nella realtà dei fatti la pratica rivoluzionaria sembra alquanto arenata, ferma ai buoni propositi. La continuità con l’ambiguità di Benedetto XVI è evidente. Del resto è proprio il papa emerito a rintracciare delle affinità tra i due pontificati, chiedendo di chiudere definitivamente con lo «stolto pregiudizio per cui Papa Francesco sarebbe solo un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano di oggi». Come a dire che oltre quelle poche differenze percepibili ad occhio, la linea ispiratrice è pressoché identica, tanto che, come informa Monsignor Viganò, i due continuano ad avere uno stretto rapporto, fatto di incontri, telefonate e soprattutto di preghiera. L’Avvenire stesso ci tiene a sottolineare la «continuità interiore tra i due pontificati».
La celebre commissione di nove cardinali (C9) nominati per la riforma della Curia romana (2013) sembra procedere piuttosto a rilento, perseverando a sostenere i nomi scomodi che la compongono. I cardinali Óscar Maradiaga, Francisco Erràzuriz, Patrick O’Malley e George Pell, praticamente la metà della Commissione, sono legati e associabili a storie particolarmente spiacevoli, relative a reati di pedofilia e alla malagestione delle ricchezze vaticane.
La stessa Pontificia commissione per la tutela dei minori (2014) rileva ulteriori problemi e blocchi, perché la “Tolleranza zero” tanto decantata sia dal pontefice attuale, che da quello precedente è rimasta flatus vocis. La delusione per la condotta della commissione ha portato alcuni suoi membri, come Peter Saunders, attivista inglese nella lotta alla pedofilia, e Marie Collins ad abbandonarla. Entrambe le defezioni non sono cosa da poco, perché si tratta dell’allontanamento volontario di due vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, che non hanno visto dare il giusto seguito alle loro iniziative. Altra dimissione preoccupante è stata quella della psichiatra infantile specializzata in violenze sessuali, Catherine Bonnet. A spingerli ad andarsene è stata soprattutto la riforma del Codice penale vaticano (2013), che insiste a non prendere in considerazione la possibilità – figurarsi l’obbligo – di denunciare alle autorità civili i colpevoli di abusi e coloro che ne insabbiano la condotta.
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