Le vittime: il silenzio dell’abuso (parte 4)

Il rapporto annuale della campagna “Indifesa” di Terre des Hommes sui reati contro i minori ha rilevato che, nel 2016 in Italia, ogni giorno più di due bambini subiscono una violenza sessuale. Oltre 950 minori ogni anno. Un numero che sale del 6 per cento (rispetto all’anno precedente) raggiungendo i 5000 minori se si considerano anche le vittime di crimini non a sfondo esclusivamente sessuale. Le bambine costituiscono quasi il 60 per cento delle vittime. Percentuale che cresce ancora di più nella fase preadolescenziale. Raddoppia anche il numero degli omicidi volontari: da 13 a 21 minori, di cui il 62 per cento sono bambine e ragazze adolescenti.
Nella serie di articoli riguardanti il legame fra pedofilia e alcuni esponenti della Santa Sede non si può non prendere in considerazione la voce di chi ha subito, di chi ha sopportato i disturbi degli altri sulla propria pelle. Di chi ha inciso nel proprio avvenire gli errori altrui, di chi ha imparato a guardare le persone in maniera disincantata, quando ancora l’incanto avrebbe dovuto essere vita. Sono i bambini fragili e sopravvissuti che si approcciano alla vita con un dolore troppo forte da sopportare perfino per un adulto, sono le piccole-grandi esistenze che trovano, a modo loro, la strada da percorrere, sono la prospettiva stravolta fuori dall’ordinario. Abuso significa anche sottrazione della libertà personale. Chiunque subisca una violenza fisica o sessuale ne riporta i segni a livello mentale e coscienziale, perché ad essere intaccata non è la mera fisicità, ma la dignità per prima. L’abuso implica una passività forzata, dunque un paradosso che condizionerà il modo di vivere delle vittime, mettendone a repentaglio non solo la formazione della personalità, ma la stessa costruzione dell’identità. Dalle parole di Marco, un ragazzo che racconta gli abusi subiti da bambino, durante il terzo convegno sulla pedofilia: «l’abuso lascia sempre il segno nella vita di un bambino. Condiziona le sue relazioni, la sua personalità, i suoi interessi, i suoi sogni».
Sopravvivere a quel dolore significa abituarsi al sospiro lento del respiro sospeso, all’insofferenza verso gli altri e verso se stessi, alla paura di gettare la maschera e lasciarsi vedere. Il nascondimento diventa la regola, l’estraneazione da se stessi la prassi. Lo smarrimento è totale così come il senso di colpa. La realtà è confusa e altalenante, instabile e sporca. Ambigua. Qual è il potere dei grandi? Cosa possono fare e cosa no?
Un bambino non sa nominare e definire ciò che subisce: si limita a subirlo, appunto. Per questo l’elaborazione dell’accaduto è molto più complessa e lunga, rispetto ad un abuso avvenuto in età adulta. Non si può dare un nome a ciò che ancora non si conosce, tanto meno capirne razionalmente le implicazioni. Si vivono e basta. Se ne possono avvertire soltanto le sensazioni, ciò che resta dell’atto sul corpo e nella coscienza. L’abuso stravolge i tempi della crescita: li anticipa da una parte e li rallenta dell’altra, perché realizza una totale discrepanza fra il vissuto e il subìto, che solo con il passare degli anni diminuisce, senza mai annullarsi. Vivere è per definizione partecipazione attiva, perché è decisione. Nella violenza invece è qualcun altro a decidere e lo fa senza chiedere il permesso, in maniera subdola e latente. Nella maggior parte dei casi il bambino si fida del pedofilo: spesso lo conosce o non riconosce la malizia delle sue attenzioni. La vergogna e il senso di colpa sono stati d’animo ancora più accentuati nei bimbi rispetto alle donne che subiscono abusi, poiché non possiedono gli strumenti né per comprendere né per raccontare. Aspettano, anche inconsciamente, che qualcuno se ne accorga e parli al posto loro, affronti lo smarrimento insieme a loro. E nell’attesa del sollevamento da quel peso aumenta la rabbia verso chi non ha saputo proteggerli, aggiungendo il dramma alla tragedia.
Le testimonianze dirette
Il vantaggio dei preti pedofili è proprio quello di conquistare l’anima della vittima, già molto tempo prima dell’abuso. Curano le anime per mestiere. I genitori e i tutori dei più piccoli non si scandalizzano per la carezza o per il bacio di un ministro di Dio. Sono tranquilli nel mandare i propri figli a catechismo o alle gite parrocchiali.
Dal libro di Angela Camuso, La preda, le confessioni di una vittima, don Ruggero Conti «era affabile, accogliente, rassicurante e seducente. Certa gente nutriva verso di lui un sentimento di adorazione. Trasmetteva agli altri un entusiasmo trascinatore e i parrocchiani ritenevano che i propri figli si sarebbero divertiti un mondo a giocare all’oratorio e ogni tanto dire una preghiera». E ancora: «era diventato per i ragazzi un punto fermo di riferimento, quasi un genitore, o un fratello al di fuori della famiglia». Nonostante le denunce e i racconti dettagliati degli abusi e delle dinamiche di avvicinamento forniti da Vasco, protagonista del libro, don Ruggero Conti durante l’udienza del 27 aprile 2010 dichiara spontaneamente: «io qui dichiaro la mia innocenza, la totale estraneità rispetto ai reati di cui sono imputato, anche se questi si stringono intorno a me in una morsa dolorosissima. Vorrei quasi essere colpevole per poter chiedere perdono, per accettare così più serenamente la pena e il giudizio degli altri». È stato condannato in I grado a 15 anni e quattro mesi di reclusione per violenza sessuale nei confronti di minori e di minori di quattordici anni e per il reato di prostituzione minorile. Con l’aggravante di aver commesso delitti contro persone a lui affidate per ragioni di educazione culturale e religiosa, di istruzione, di vigilanza e custodia. Alla notizia della condanna, Vasco racconta ad Angela Camuso: «sapere che Ruggero finirà in una cella per un bel po’ mi basta. Soffrirà come deve soffrire: lontano da tutti, deve sentirsi da solo contro tutti. Deve provare l’abbandono, che non è niente di più e niente di meno di quello che provavo io, per causa sua».
Nel 2015 un ragazzo uruguaiano di 29 anni racconta in un video realizzato dalle telecamere di XIX TV di essere stato abusato da tre preti, fra questi un ligure. Il ragazzo, nato in Brasile, a soli sei mesi viene abbandonato dalla madre e dal padre e affidato a un istituto cattolico in Uruguay fino all’età di otto anni. Già durante questo primo periodo veniva invitato dal prete missionario italiano, don Francesco Zappella, a dormire insieme a lui. Pur non comprendendo da subito ciò che stava vivendo, il ragazzo inizia a raccontare di un prete che gli toccava i genitali gemendo. A quattordici anni arriva in Italia per prendere il diploma da infermiere e «nuovamente vengo accolto dal quel prete italiano a Savona in una parrocchia dove mi garantisce i soldi per studiare, per i vestiti e tutto il resto. Ma in cambio vuole farsi massaggiare, diceva che ne aveva bisogno». In questo secondo periodo il parroco «non voleva che avessi la ragazza, diceva di amarmi come un padre ama il proprio figlio, mi abbracciava, voleva fare sesso, mi toglieva i vestiti e mi toccava. Chissà quanti ragazzi in questi anni hanno subito quello che ho subito io. Era l’inferno».
Don Francesco Zappella era già noto alle autorità giudiziarie per i suoi trascorsi. Infatti viene ammesso al seminario di Albenga pochi mesi dopo una condanna, del 9 maggio 1991, a 14 mesi di reclusione per atti di libidine violenta su due ragazzini al di sotto dei quattordici anni. A settembre 2015 il parroco a Borghetto Santo Spirito, insieme a due sacerdoti sudamericani, padre Gabriel Tojos e padre Sebastian Silvera, viene segnalato alle autorità dell’Uruguay dall’onlus ligure “Rete L’abuso” per le presunte violenze ai danni del ventinovenne, avvenute nel 2005. Il gip, nonostante i precedenti, richiede l’archiviazione del caso, perché essendo ormai trascorsi 10 anni i reati erano caduti in prescrizione, tanto che Zappella dichiara: «solo calunnie, sono sereno. Lo stesso vescovo ha rifiutato le mie dimissioni».
Laura M. adesso vive in un piccolo paese del nord Italia e racconta: «avevo 11 anni quando ho sentito per la prima volta su di me il sesso di un uomo. Era il mio parroco, e ogni scusa era buona per restare solo con me e attirarmi in casa sua, sopra la sacrestia. Io resistevo, ma ero debole, indifesa, non capivo quanto fossero gravi quelle molestie e non avevo il coraggio di ribellarmi a un adulto del quale mi fidavo ciecamente. Lo scandalo scoppiò quell’estate, un ragazzino più piccolo raccontò a casa quel che gli stava capitando e scoprimmo così che la cosa andava avanti da anni, che alcune famiglie avevano cambiato parrocchia senza però mai pensare a proteggere i figli degli altri. Quel prete lo trasferirono per due anni al Tribunale ecclesiastico, poi gli affidarono un’altra parrocchia, poi ancora un’altra, neppure troppo lontana. Andai dal padre spirituale del collegio, mi disse di non parlare e che potevo continuare a volere bene al mio parroco. Per anni e anni non ho potuto avvicinare un uomo, non sopportavo neppure l’idea. Ho cambiato città, mi sono allontanata, a trent’anni mi sono fidanzata, ma ancora non riesco a pensare a dei figli. E vorrei far qualcosa per non lasciare più che la vita di un bambino sia compromessa per un sistema malato».
Alexander J. Probst ha deciso di parlare dopo quasi 50 anni di ciò che avveniva nel coro dei “Passeri del Duomo”. Entra a farne parte del 1968 quando era un bambino e subisce quasi un centinaio di violenze fra quelle fisiche e sessuali, tutte raccontate nel suo libro Von der Kirche missbraucht: Meine traumatische Kindheit im Internat der Regensburger Domspatzen und der furchtbare Skandal (Abusato dalla chiesa. La mia infanzia traumatica nel collegio dei Domspatzen di Ratisbona e il terrificante scandalo), uscito a marzo 2017. Racconta che le violenze fisiche erano una prassi, ma gli anni più duri iniziarono con il ginnasio, quando un insegnante costringeva lui e altri bambini a far parte di un gruppo segreto. Durante gli incontri l’uomo beveva birra e alcol, fumava e guardava pornografia. Entrava nei dormitori dei ragazzi durante la notte per infilarsi nei loro letti. “Prima erano carezze, palpate, abbracci, poi violenze”. Questo avveniva quasi ogni sera, finché, verso la fine dell’anno scolastico, ha avuto il coraggio di confidare tutto al padre che lo ha immediatamente tolto dalla scuola.
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