Sotto gli occhi del Giudizio. Non c’è più tempo per i minori

Mentre gli occhi del mondo si concentrano sulle prime parole, i primi gesti e i nuovi segnali di papa Leone XIV, le stanze del Vaticano tornano a non essere più il centro delle cronache del mondo. La sede non è più vacante; la sede appunto: una tra le più meravigliose del mondo occidentale.
Con occhio leggero ma attento, torniamo nella Cappella di Santa Maria Assunta in Cielo, meglio nota come Sistina, e nel silenzio, ammiriamone le suggestive bellezze.

È risaputo che fiore all’occhiello dei Musei Vaticani è di certo la cappella voluta da papa Sisto IV della Rovere, nella seconda metà del XV secolo, i cui interventi pittorici più significativi risalgono al secolo successivo, non ultimo appunto, il celeberrimo Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti.

Purtroppo, è comune in questi tempi frenetici e bulimici vivere l’arte come experience, andare al Louvre per la Gioconda, se si ha un minimo di background, sognare una corsa alla Bande à part, volare a cercare qualche Canova. Non c’è più tempo per i minori.
Tuttavia, dei minori qui vogliamo parlare (anche se ci duole chiamarli così) e cercheremo di farlo all’ombra del capolavoro di Michelangelo.
Il cielo in una stanza
La nascita stessa della cappella, realizzata su un progetto dell’architetto Baccio Pontelli e voluta dall’omonimo papa Sisto, tra il 1475 e il 1481, si prefiggeva un compito ben preciso, quello di porre fine una volta per tutte alla confusione ubiquitaria dovuta alla “cattività avignonese”. Nessun altro luogo al di là di quello avrebbe potuto ospitare le funzioni ufficiali del capo della Chiesa.
Il progetto già prevedeva la realizzazione di opere pittoriche su tre livelli dal basso verso l’alto: uno zoccolo con finti arazzi, scene del Vecchio e del Nuovo Testamento e, infine, le effigie dei papi martirizzati. Sul soffitto nessun ciclo d’affreschi, nessuna Creazione divina, solo un intenso cielo stellato.
A realizzarlo, secondo una consolidata tradizione iconografica, fu Pier Matteo d’Amelia, pittore umbro che aveva imparato l’arte, è qui il caso di dirlo, nella bottega di Filippo Lippi, altro importante pilastro della tradizione artistica fiorentina, insieme a Domenico Veneziano e Beato Angelico.

Ma alcuni danni strutturali costrinsero papa Giulio II, erede di Sisto, a intervenire diversamente, ricorrendo alle inquietanti e grandiose visioni del Michelangelo che, irrimediabilmente, cancellarono il cielo sopra la Sistina, scaraventando l’artista umbro nel dimenticatoio della storia dell’arte.
Ma lo scultore del David non fu inclemente solo col povero Pier Matteo, su richiesta di papa Clemente VII, infatti, non si preoccupò di coprire con le sue opere quelle del suo predecessore: Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino, il divin pittore.
Come già detto, il secondo registro dall’alto prevedeva una serie di affreschi che, secondo il principio della biblia pauperum, avrebbe raffigurato, come ancora oggi è possibile vedere in parte, storie dall’Antico e dal Nuovo Testamento; diciamo in parte, perché l’attuale parete dell’altare, prima di ospitare il ben noto Giudizio, offriva allo spettatore i seguenti tre affreschi del Perugino: Nascita e ritrovamento di Mosè, Assunta con Sisto IV inginocchiato e Natività di Cristo; ormai, per sempre perduti.
Di quel meraviglioso dipingere, precedente agli interventi del Buonarroti, rimangono ancora le scene delle altre tre pareti, realizzate da pittori del calibro di Luca Signorelli, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Cosimo Rosselli, Bartolomeo della Gatta.

In verità, alla morte di papa Clemente, Michelangelo non aveva ancora cominciato l’impresa del Giudizio, sarà solo con Paolo III, ormai sessantenne, che dipingerà il suo capolavoro.
La sorte di Daniele
Ma la Storia è beffarda, troppe volte assurda. Agli occhi del cardinale Carafa, alle soglie ormai della Controriforma più cieca, le opere di Michelangelo furono giudicate oscene: nudità inaccettabili. Venne chiamato un altro pittore di indubbia maestria, Daniele da Volterra, la Discesa dalla croce in Trinità dei Monti è prova inconfutabile del suo talento; gli venne dato ordine di coprire quelle nudità ridipingendo sulle pudenda, niente meno che delle “mutande”; da qui e per sempre il soprannome di “Braghettone”, censore di Michelangelo. Ricordiamo che a volerlo fu quel cardinale Carafa che nel 1555, sempre in quella cappella, scelse il nome di papa Paolo IV.

La Chiesa non censura più le sue opere, né quelle di altri; a non voler vedere il bello, a meno che non sia famoso, ormai, siamo noi.