Ci siamo persi la crescita

La mia Smemoranda del 2013 aveva gli angoli consumati, frasi di canzoni che ormai non ascolto più scritte ovunque, e una dedica con la penna gel profumata al cocco: “Amiche per sempre, tvb”. Era un contenitore caotico, pieno di adesivi, sogni adolescenziali e scarabocchi fatti nell’ora di buco. Pagine e pagine, alcune strappate, altre segnate con l’uniposca. Nessuno le leggeva. Non che ci fosse qualcosa di segreto, sia chiaro. Era mia, intimissima, pasticciata quanto reale.
Poi apro Instagram e vedo un post: Millie Bobby Brown si sposa. Vent’anni. Capelli raccolti, sguardo sicuro. Un’immagine da donna adulta, posata, quasi già vintage. Volano accuse pesanti del tipo “sembra che hai 40 anni”, “sei vecchia”. E mi chiedo: si è forse persa la bellezza della crescita? Quando è scomparsa la distanza tra la merenda e il matrimonio?
Oggi navigare su Tik Tok è come imbattersi in una vetrina di una generazione precoce. Ragazzini di tredici anni seguono skincare da 9 step, adolescenti in erba soffrono di burnout e ansia da prestazione come se avessero un mutuo sulle spalle. Chi ha vent’anni ha fretta di raggiungere i cinquanta e chi ne ha cinquanta fa a gara per chi ne dimostra di meno.
Se l’età fosse una questione così semplice faremmo come gli alberi. Un taglio al centro e giù a contare gli anelli. La Nostra cara Millie, però, non è veramente vecchia. Ha solo dimenticato la bellezza di un Cioè e di un pigiama party con le amiche. Grande certamente, ma altrettanto donna e quindi ancora di più sotto i riflettori social.
E la responsabilità? Non è mica colpa sua, ovviamente. I figli sono sempre il risultato di una società che li ha partoriti. Se le guance paffutelle, i brufoli appena sbocciati sono un grande no per la moda del consumismo, il motivo non sono di certo le creme coreane per il contorno occhi. Nemmeno il botox. Si è persa la bellezza della crescita. E forse anche un po’ l’originalità.
Essere giovane non è bello. La precarietà è una catena a vita, non essere presi sul serio anche. Essere vecchio, vintage, si che è cool. Quella maledetta skincare che poi sembra un gesto così innocuo è un’autenticità che si perde. A tredici anni(o forse un po’ meno) sono già esperti di anti-ageing e primer. Guardandoli, non sembrano nemmeno adolescenti. Stessa intonazione, stesse frasi, quasi seguendo un copione. Di scritto, però, c’è solo l’algoritmo che decide cosa sale o scende nelle visualizzazioni.
Diventare adulti in una società che ha tolto i filtri dell’infanzia è un paradosso. Si nasce grandi in un mondo in cui la scala della crescita ha perso le sue tacche. In cui la giovinezza è diventata un fallimento estetico da nascondere. Un feticcio, ma solo se resta infantilizzato. Siamo ossessionati dalla sindrome di Peter Pan, non sopportiamo che i giovani crescano in fretta.
Ma non è tutta skin care. Sono i ritocchini a regola d’arte, i seni rifatti alla maniera di una fotocopiatrice. “Mi dia una terza, coppa b grazie”. Che quasi tutti i vestiti sembrano altrettanto seriali, per chi ha un seno modellato quanto un prodotto di supermercato piuttosto che la prosperità della venere di Milo.
E poi ci lamentiamo che la politica è morta, che non ci sono più pensatori originali. Trovatelo un altro Bismarck oggi. Magari tra un Aristotele o un Platone 2.0. Se anche il pensare originale si è andato a fare una bella skin care, dubito che ci sia spazio per il pensiero autentico, per la possibilità di sbagliare senza condizioni di causa.
Non è più l’individualità a guidare la nostra crescita, ma il bisogno di adattarsi a un modello globale che cancella le differenze, che appiattisce, che ci fa sembrare tutti uguali e, di fatto, più vecchi. E anche il gusto del vestire si è livellato. Andrebbe chiarito chi ha stabilito che dobbiamo vestirci tutti come se uscissimo da un catalogo di Zara del 2018. L’estetica anni ’90, i vestiti da nonna ci ricordano che i giovani per sopravvivere si vestono e giocano a fare gli adulti. Ma dietro a quei filtri, a quei video, rimangono pur sempre adolescenti con un diario di smemoranda su cui segnare i compiti.