“Faccia a Faccia col nonsense”: l’iniziativa raccontata dal pittore Giancarlino

È Roma il teatro del primo “Faccia a faccia col nonsense”, un Festival che mette in scena artisti, architetti, biologi, poeti, comunicatori, persone, a cimentarsi con questa particolare forma espressiva. Lo organizza Giancarlino Benedetti Corcos insieme all’editore emiliano Sergio Bevilacqua. Scopriamo di più, ospiti nello studio dell’artista.
Giancarlino, grazie di averci accolto nel tuo studio. Perché un Festival e perché ora?
Sono sincero, non amo particolarmente la parola Festival. Oggi c’è un Festival per tutto, definizione inflazionata, una cifra che non mi piace e, senza pregiudizi, preferisco infatti, è un cambiamento avvenuto un po’ in corso d’opera, definire questo un “Faccia a faccia col nonsense e altro”. Dove il faccia a faccia è tra le persone che parteciperanno. Quello che ambirei a ricreare con questo happening è una sorta di moderno “crogiolo”, figura dell’ I Ching, quella apprezzata da Jung e da lui immaginata come una cosa vuota, che è a disposizione dell’alchimista per creare poi appunto l’alchimia della personalità, il linguaggio alchemico dello spirito, dell’anima. Crogiolo come calderone cerimoniale dove quello che viene messo sul fuoco sono però le esternazioni dei singoli partecipanti, di tutte le persone che parteciperanno. Quello che a cui vorrei dare vita sono due giornate di libertà del linguaggio, una sorta di ginnastica mentale in cui poter creare dei nonsense, un momento di depurazione nella nostra vita che ci permetta poi di affrontare meglio i giorni a venire, quelli in cui dovremo tornare al sense. E poi, questo è il mio pensiero, nel nonsense c’è caricato il sense. Contro il “dover essere”, però, piuttosto qualcosa che arriva da dentro.

Il poeta Valerio Magrelli parla così dell’operazione del “non-sense”, parola inglese che designa l’esperienza del volo sillabicamente più lieve: i “non-sense” tolgono al linguaggio la zavorra del senso, per farlo decollare verso il cielo, e così renderlo capace di spiegare il mondo. Un paradosso?
No. Non è un paradosso perché la leggerezza nel linguaggio, questa specie di paracadute che poi è nello stesso anche una mongolfiera, che tende ad andare in alto, in qualche modo dà più valore al linguaggio. Al senso ci si deve arrivare attraverso la leggerezza, quella che ci permetterà poi di essere più liberi nel trovare, nel senso, delle strade particolari, alternative. Vorrei citare, ad esempio, Martin Heidegger. In “Sentieri interrotti” parla di questi sentieri che si inerpicano nel bosco, ma poi creano delle interruzioni, come delle sinapsi, che però poi portano a qualcosa. Ad esempio… a delle fragole. Sbagliando strada, si vuole dire, si ritrova una strada. Perdersi nel bosco e tornare indietro ci permette di scoprire delle parti del bosco che non conosciamo, delle parti di noi stessi che non conosciamo.
Quello che vuoi condividere in questo Festival, hai detto, è una sorta di “ginnastica mentale”. Significa recuperare quindi tutti la ‘nostra’ creatività uscendo dalla dimensione di spettatori e iniziando a comunicare più autenticamente?
Noi, come comunichiamo oggi? Tutti noi comunichiamo attraverso lo smartphone, ma non con la parola, con messaggini, con audio vocali. Non c’è più il vis-à-vis, manca questo, e quindi c’è una riduzione nella nostra vita. È come se le persone avessero paura di sentire la voce dell’altro, o comunque se la ascoltano la ascoltano mediata, registrata. E allora in questo senso un Festival del nonsense serve ad abbandonare per un attimo cellulari e altri strumenti e ritornare piuttosto allo scontro e allo scambio che attuavano ad esempio di dadaisti e i surrealisti quando facevano il gioco dei Cadaveri eccellenti e le loro casuali, e non casuali, interazioni.
Quali sono gli autori classici del nonsense che ti hanno ispirato?
Petrolini, innanzitutto, per me il più grande autore di nonsense. Quando dice “Mia madre? Anche lei una grande inventrice: anzitutto, ha inventato me. E non dico altro! Poi aveva il senso dell’economia sviluppato fino alla genialità: sarebbe stata, certo, una grande economista… Figuratevi: io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplicemente Tone: per risparmiare il Gas… ”. Ma attenzione. Il Festival si chiama in realtà Festival del nonsense e altro. Dove l’altro è per esempio Lewis Carroll di Alice nel paese delle meraviglie, il linguaggio inventato di Tommaso Landolfi (che sembra un friulano stranissimo), fino a Gadda che gioca con la lingua dove non è tutto nonsense, o allo stesso Joyce, dove però c’è un senso nascosto archetipizzato da una lingua inventata, che tuttavia ha un significato, ma un significato incomprensibile, fino al fuori senso di Samuel Beckett. E poi poeti, per arrivare a Nino Frassica, che è certamente il più grande creatore contemporaneo di nonsense che esista, di nonsense nel quotidiano.
A cosa assisteremo durante il Festival e chi saranno i protagonisti di questa prima edizione?
Lo saranno ballerini, musicisti che accompagneranno il Festival, artisti, e tutte le persone che si avvicenderanno ad enunciare il proprio nonsense, in una sorta di speech corner, come ad Hide Park. E sicuramente ci sarà anche chi dirà invece cose con un senso. Il senso traboccherà sempre fuori, uscirà fuori sempre come un rospo o una rana da dentro l’acqua.
Nonsense evoca libertà. Ma libertà da cosa esattamente?
Libertà da un linguaggio che noi usiamo, che è sempre più stereotipato. Secondo me si può usare il nonsense anche per dire cose importanti, questo mi preme dirlo. È una sorta di ginnastica mentale con la quale noi possiamo attingere al pozzo del linguaggio che è oggi certamente scaduto, impoverito dalla situazione in cui viviamo, da una certa volgarità diffusa – senza nulla togliere alla volgarità che lo stesso Thomas Mann definiva “importante -, ma l’arte è come un massaggio a qualcosa che è atrofizzato, alla atrofizzazione del linguaggio, della cultura.
Te e Laura. Laura Rosso quanto continua ad essere per te fonte di ispirazione?
Con Laura io parlo ancora. Insieme abbiamo creato tantissimo, è lei che mi ha insegnato ad andare controcorrente, a non cedere mai nell’arte a fare qualcosa di seriale, e poi a mettere sempre insieme la filosofia con l’arte. E a fare attenzione al “volto dell’altro”, soprattutto. Questo Festival è qualcosa in cui c’è l’interazione tra le persone, è questo che come artista mi interessa. Io non porterò delle mie opere, farò una piccola performance, ma saranno altri artisti a portare le loro cose.
Parlando di linguaggio non poteva mancare un libro. Ne presenterete uno durante il Festival, “Frantumpio”, di Cosimo Angeleri. Perché questo libro?
Perché questo libro è l’esagerazione del nonsense, scarabocchi accanto alle parole, incomprensibili. È perfetto.
Arriviamo alla “tua” Arte. Definita come arte totale da Achille Bonito Oliva, “capace di coniugare linguaggi diversi intrecciati tra loro… tra ‘horror vacui’ delle composizione e impalcatura barocca delle immagini”. Ti riconosci come artista in questa descrizione?
Sì, assolutamente. Soprattutto quando vi riconosce dentro Petrolini. Petrolini è il più grande artista del Novecento, tutti gli sono debitori, da Pasolini, a Gadda, a Proietti. L’arte che prende in giro, che fa ridere. Le mie opere è stato detto che fanno ridere, che suscitano ilarità. E questo aspetto, quello del suscitare divertimento, lo trovo bellissimo e importante. La risata, il ridere delle cose. L’arte sottende al nonsense.
Dalla grafica all’architettura nel tuo percorso di formazione, poi la pittura e l’amore per la performance e il teatro. Si può dire che ami la contaminazione?
Io penso che l’arte sia qualcosa che abbraccia la musica innanzitutto, la musica sottende ogni arte, il mondo senza musica sarebbe un errore. E poi le arti sono intrecciate. Io ad esempio ho avuto un rapporto con Achille Bonito Oliva non solo legato alle mie opere pittoriche, che certamente ne sono il centro, ma anche alla scrittura di commediole he portavo avanti con Laura. Nelle commedie, ma direi nelle performances, negli happening, emerge la capacità della parola di mettersi al servizio dell’opera stessa. Ci sono due frasi molto significative di Achille Bonito Oliva che parlano di arte e degli artisti. La prima è che “l’arte è la capacità di non incontrare mai il nostro nemico” e l’altra che “l’artista è un errore biologico nel mondo dell’arte, perché lui muore e l’opera vive”. E le opere hanno una vita propria, devono avere una vita propria. Ma è proprio realizzando opere, del resto, che sono eterne, che l’artista “non incontra mai il proprio nemico” e cioè la propria morte. Duchamp parla di “ritardo in vetro” nelle sue opere alchemiche.
Il tuo studio nel cuore di Roma. Che legame ha la tua espressione artistica con questa città?
Roma è la grande fonte di ispirazione per la mia opera, è un grande teatro, indipendente dalle persone, un simulacro, una rovina di cose che però ricreano sempre positività e linguaggi. Ma poi con Roma mi identifico totalmente, non so dove sia l’interno e l’esterno, il dentro e il fuori da me, in una confusione tra il mio corpo e la mia città.

Hai dipinto su ceramica, carta, legno, stoffe, su tele, montate spesso su supporti inediti, esposte a volte all’aperto. Qual è oggi il supporto che privilegi?
Sì, ho dipinto e dipingo su tutto. Però la cosa importante adesso sono le ceramiche. Entro l’anno inaugurerò al Palatino, con la collaborazione di Maddalena Scoccianti, Piero Meogrossi e Claudio Grandoni, una grande ceramica dal titolo “Per la rinascita di una Roma mediterranea – L’albero della vita”, che sarà ospitata nel vestibolo di un grande bagno del Palatino, sotto la casa di Augusto e il Lupercale. Ma il mio supporto ideale resta sempre la tela ghinea di cotone, che io non intelo, lo faccio solo su richiesta del cliente. Tele che invece accumulo, come in un magazzino di stoffe, come faceva mio nonno, rappresentante, e io sentivo l’odore di queste stoffe nei negozi. È un qualcosa che mi fa sentire a casa, tra queste tele mi sembra di sentire l’odore stesso di quelle stoffe.
Sulle tue tele, spesso grandi, affastellamento di immagini, colori su colori, la suggestione di un eterno movimento, l’accenno alla musica, ai suoi strumenti. Cosa aggiungeresti a questa ‘lista della spesa’ e dove sta andando il pittore Giancarlino?
Colore e ancora colore, colore e segno. Anche se vorrei ritornare a lavorare grandi cose con i colori ad olio, una tecnica che ho abbandonato da tanto tempo. Ma c’è tempo.