UDC: Unità di Crisi

Ci sono parole che è possibile sentire solo quando il mondo si rompe. Non fanno rumore, non escono in prima serata, non hanno volti famosi. Eppure, sono lì. A luci basse, a telefoni caldi, dietro una porta chiusa di notte. Una di queste parole è UDC: Unità di Crisi.
Tre lettere. Una sigla. Apparentemente fredda, impersonale, da verbale ministeriale. Ma chi ha avuto qualcuno all’estero durante un terremoto, una guerra improvvisa, una pandemia, sa che dietro quella sigla ci sono vite vere che si muovono per salvare altre vite.
UDC non è solo una struttura. È un riflesso della cura che uno Stato dovrebbe avere per i suoi cittadini. È il braccio silenzioso che si allunga anche quando la paura parla più forte di tutto.
La parola “Unità di Crisi” non è nata da una scrivania, ma da un’urgenza. Dalla consapevolezza che il mondo, sempre più interconnesso, può cambiare volto in un attimo. Che oggi un amico va in viaggio di nozze in africa e domani si può ritrovare bloccato in un colpo di Stato, che un figlio parte per una vacanza in Asia, e poi un terremoto devasta la città.
Tutto è cominciato seriamente negli anni ‘70 e ‘80, quando si è fatto chiaro che il consolato e l’ambasciata da soli non bastavano più. Serviva qualcosa che potesse coordinare, agire, decidere. In fretta. Serviva una cabina di regia invisibile ma pronta. Così, nel 1985, presso il Ministero degli Esteri, nacque l’Unità di Crisi.
Non è un caso che quella sigla inizi a circolare davvero tra la gente solo dopo le grandi emergenze. Perché è in quei momenti che ci accorgiamo che qualcuno sta vegliando anche quando tutto intorno crolla.
L’UDC è un posto dove non si spegne mai la luce. Dove, se il telefono squilla nel cuore della notte, qualcuno c’è. E risponde.
Le giornate di chi ci lavora non seguono orari. Segnano fusi orari, rotte aeree, scenari geopolitici. Sono persone, non robot, non burocrati, che lavorano nel presente ma ragionano sempre due passi avanti. Perché ogni minuto perso può significare una vita bloccata, una fuga mancata, un aereo che non parte.
Ricordiamo la pandemia del 2020, c’erano italiani bloccati ovunque: in India, in Perù, in Australia. E mentre tutto si chiudeva, l’Unità di Crisi tracciava rotte, recuperava contatti, faceva partire voli straordinari, silenziosamente, dietro le quinte, ma con efficacia.
O si pensi alla crisi in Libia, al terremoto in Nepal, al colpo di Stato in Sudan. Dietro ogni evacuazione, ogni ritorno a casa, c’era una stanza nella Farnesina in cui qualcuno non ha dormito per far dormire altri.
Oggi il termine UDC si è allargato. Non riguarda solo il Ministero degli Esteri. Ospedali, Regioni, aziende: quasi ovunque esiste una “unità di crisi” interna. È diventata una parola che indica il cervello del sistema quando il cuore impazzisce.
Chiunque l’abbia vissuta dall’interno credo che possa dire con fermezza che non è un ruolo tecnico, è quasi una vocazione. Vuol dire mantenere lucidità quando attorno c’è solo nebbia. Vuol dire sapere cosa fare quando nessuno sa più nemmeno dove guardare.
Ma soprattutto, vuol dire una cosa semplice e profonda: essere lì per qualcuno, anche se quel qualcuno non sa nemmeno chi sei.
La parola “crisi” viene dal greco “krisis”: decisione. Ed è proprio questo che fa l’UDC. Decide. In un tempo breve. In uno spazio incerto. Con in mano la responsabilità di vite e famiglie.
Dentro quell’acronimo ci sono mappe, piani d’emergenza, contatti cifrati. Ma c’è anche l’ansia di una madre che non sente la figlia da giorni. C’è un giovane bloccato senza passaporto, con un volo cancellato e nessuno a cui chiedere. C’è quell’umanità fragile che cerca solo una voce che dica: “Ti stiamo cercando. Non sei solo.”
Non è solo strategia. È umanità organizzata.