Referendum

Una parola da millenni sulla bocca di tutti
Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, attraverso il quale il popolo è chiamato a esprimere, mediante il voto, la propria opinione su questioni di rilevanza politica o normativa. Il termine è stato mutuato dal latino: segnatamente si tratta del gerundivo del verbo “referre”, che significa “riportare” o “riferire”, e compare originariamente nella locuzione “ad referendum”, da intendersi come una convocazione “per riferire”. Nel corso del tempo poi la medesima espressione è stata usata anche in ambito diplomatico, per indicare decisioni provvisorie da confermare, in quanto, per l’appunto, da riferire all’autorità superiore.
Nell’ordinamento italiano il referendum è regolato in più punti della Costituzione, e si configura come una forma di democrazia diretta, forse la principale tra quelle “forme” mediante le quali si esprime la sovranità del popolo, come stabilito nell’articolo che apre e fonda la nostra carta costituzionale.
Lo strumento referendario rappresenta perciò uno degli istituti giuridici più significativi per l’attuazione della nostra democrazia, offrendo ai cittadini la possibilità di intervenire direttamente su scelte cruciali per la vita politica e istituzionale. Fu soltanto grazie al referendum che l’Italia scrisse una pagina della sua storia, mediante quello che noi tutti oggi ricordiamo come IL referendum: la scelta con cui il 2 giugno 1946 si accantonò la monarchia – tra mille storie, complotti, dietrologie e affascinanti racconti – e si diede per la prima volta l’opportunità di votare in tutta la nazione a tutti coloro che avessero raggiunto la maggiore età, senza distinzioni di ceto o di sesso.
Le principali tipologie di referendum previste dalla Costituzione sono il “referendum abrogativo”, il “referendum costituzionale” e il “referendum territoriale”.
Il referendum abrogativo permette di eliminare, in tutto o in parte, una legge ordinaria o un altro atto avente forza di legge: questo viene promosso mediante una raccolta di almeno 500.000 elettori firmatari, o in alternativa di cinque consigli regionali, ma per la sua natura questo strumento non è ammesso su determinati temi. Rimane aperto un acceso dibattito rispetto al fatto per cui alcuni riterrebbero opportuno alzare la soglia delle firme necessarie a proporre il quesito referendario, stante la maggior facilità che si ha oggi nel raccogliere lo stesso numero di firme – anche online – che invece erano state pensate come soglia ragionevole da superare in un’Italia come quella della fine degli anni ’40.
Sicuramente oggi questa “facilitazione” nel compiere una raccolta firme è ancora temprata dal quorum che caratterizza questo tipo di referendum, per cui la votazione è valida solo se partecipa ad essa almeno il 50% + 1 degli elettori aventi diritto, ma proprio la discrepanza tra la facilità nel proporre il quesito e la difficoltà poi di raggiungere il quorum, e quindi fondamentalmente incontrare l’interesse popolare, ha fatto sì che ormai da decenni si vedano naufragare 9 referendum su 10.
Altro genere della stessa specie è il referendum costituzionale, che è però uno strumento suppletivo, vale a dire un meccanismo che entra in gioco quando una legge volta a incidere sulla Costituzione non è stata approvata da entrambe le Camere con la maggioranza dei due terzi, e, proprio per la rilevanza dei temi trattati, in assenza di un ampio consenso si preferisce rimettere la palla al popolo e alla sua sovranità, chiamando i cittadini a confermare o respingere la riforma.
Vi sono poi i referendum territoriali, previsti per la fusione di regioni esistenti, la creazione di nuove regioni o il trasferimento di province e comuni da una regione a un’altra, ma ancora, fuori dalla Costituzione “originaria” sono comunque stati previsti il referendum consultivo e i referendum regionali, i quali permettono alle singole comunità di esprimersi su leggi e provvedimenti locali.
Guai però a pensare che i referendum siano solo quello del 1946 e qualcuno miseramente naufragato nell’ultimo decennio: storicamente il referendum ha rappresentato un mezzo per colmare la distanza tra istituzioni e cittadini, facendo sì che questi ultimi potessero scrivere in prima persona le pagine dei libri che studieranno i nostri figli, come avvenuto ad esempio con il referendum sul divorzio, e chissà che questo non avverrà anche con i prossimi referendum dell’8 e 9 giugno.
In conclusione, non si può però ignorare un fatto che suscita qualcosa di molto simile al pirandelliano sentimento del contrario. Infatti, se quasi un secolo fa lo strumento referendario aveva il pregio di avvicinare i votanti – almeno nelle funzioni – a una classe politica altamente rappresentativa dei suoi elettori ma al contempo percepita come fortemente distante per estrazione sociale e cultura, oggi lo stesso mezzo fa ancora questo gioco, ma con dei presupposti invertiti: permette cioè a tutti di giocare al gioco della politica, facendoci sostituire a interpreti spesso di bassissima lega – da “uno vale uno” stiamo arrivando a un’offerta speciale, due al prezzo di uno – che per giunta sono tutto fuorché rappresentativi dei loro elettori.
Forse la contraddizione in termini che rappresenta il referendum, cioè uno strumento di democrazia diretta, nel nostro sistema di democrazia rappresentativa, acquisisce un certo peso specifico proprio in ragione della possibilità che offre di punire la classe dirigente, senza dover perdere l’ennesima sfida delle urne in cui chi viene cacciato dalla porta rientra tronfio dalla finestra.