Fake news, il cancro nell’era dei social
La trasformazione dell’ecosistema informativo ha inevitabilmente portato l’ingresso nel circuito delle notizie di fonti non professionali, e di conseguenza ha messo in luce il tema del fact checking, ovvero un’attività critica che consiste nella verifica dei fatti.
Il cancro dell’informazione al tempo dei social, infatti, sembra essere proprio la diffusione delle “bufale”, di notizie false che molto spesso diventano virali grazie alla Rete e che arrecano danni sia al lettore che così è vittima della disinformazione, sia ai media che perdono credibilità e autorevolezza. Neanche a dirlo, le piazze virtuali in cui le fake news hanno maggiore diffusione sono proprio i social network: terreno fertile per i cliccatori della Rete, amanti dell’allarmismo e del populismo.
Facebook, pur non essendo un editore e declinando ogni responsabilità sui contenuti condivisi dagli utenti, ha ormai assunto un ruolo centrale nel sistema informativo: basti pensare che secondo uno studio dell’American Press Institute, l’88% dei Millennials si informa attraverso i social. E se è vero che Facebook ha prestato il fianco a un imbarbarimento dell’informazione online che consiste in un’esasperata corsa ai click e alla crescita del traffico invece che della qualità e del valore del prodotto giornalistico, oggi probabilmente Zuckerberg e il suo staff si sono resi conto che è giunto il momento di limitare la diffusione delle fake news. Ecco che sulla home del social per qualche giorno è comparso un vademecum con le tecniche anti-bufala: dieci consigli per evitare di cadere nella trappola di chi ci vuole creduloni e disinformati.
Ma anche Google corre ai ripari contro le bufale e dà vita a una funzione che segnerà tra tutti i risultati della ricerca quelli indicati dall’editore come frutto di fact checking. Un modo per stimolare la capacità critica del lettore e per evitare di cadere in una delle tante insidie del web.
Da qualche mese a questa parte, quindi, social network, testate giornalistiche e motori di ricerca hanno deciso di prendere posizione e di affrontare il problema. Ma mentre gli addetti ai lavori si scervellano per inventare nuovi algoritmi in grado di distinguere il vero dal falso, c’è chi ha già compreso che le fake news rappresentano innanzitutto un problema culturale da contrastare con il più potente dei mezzi mai inventati: l’istruzione. In Svezia, per esempio, dal 2018 i nuovi programmi ministeriali per le scuole elementari dedicheranno più spazio all’insegnamento dell’informatica e dell’analisi critica dell’informazione. «La moltitudine delle fonti è la realtà dell’era digitale, per questo è importante preparare i bambini a riconoscere le pubblicazioni degne di fiducia. Devi saper riconoscere ciò di cui puoi fidarti e quale sia la differenza tra una pubblicazione legittima e un sito di propaganda», ha detto il ministro dell’istruzione svedese, Gustav Fridolin.
Anche il direttore dei programmi di valutazione delle competenze scolastiche dell’Ocse, Andreas Schleicher, ha preannunciato l’introduzione, all’interno del test Pisa che viene somministrato ogni anno agli studenti di 72 paesi, di una prova sulla capacità di riconoscere una bufala: «Saper distinguere ciò che è vero da ciò che è falso è oggi diventata una competenza fondamentale. Riconoscere una fake news, anche semplicemente sapere che le cose scritte non sono necessariamente vere e che devi pensare criticamente è molto importante, e credo che su questo la scuola possa fare la differenza».
Se le leggi contro le fake news nel nostro Paese sono ancora lontane dall’essere varate, che la lotta cominci tra i banchi di scuola, che si investa sull’educazione del futuro lettore, che alla scuola venga restituita la reale finalità formativa della persona in grado di ragionare, comprendere e distinguere. E chissà, magari attirando l’attenzione sull’argomento saranno gli stessi figli a coinvolgere i genitori.