INTERMEZZO A QUATTRO ZAMPE (o delle nascoste identità)
Mai dire mai. Ciò mi sembra possa valere al di là di alcune (e poche) certezze che ci accompagnano nel corso della vita. Riguardo ai nostri rapporti col mondo animale, debbo dire che da bambina, abituata in ambito parentale a circondarci di cani, non riesco a ricordare di aver mai posto particolare attenzione agli amici felini. Era soltanto indifferenza oppure una sorta di diffidenza verso le loro unghie?
Poi, a distanza di anni, mi capitò di leggere una delle inquietanti novelle che lo scrittore inglese Edgar Allan Poe scrisse nel 1843, intitolata “Il gatto nero“. Vedi un po’ dove mi andavo a infognare da ragazzetta, proprio in quel genere di letteratura dell’horror dal quale oggi rifuggo non foss’altro per alleggerire lo spirito dalle pesanti responsabilità quotidiane. Ma anche allora quel racconto mi procurò un profondo sconcerto. Ho voluto tuttavia rinfrescare la memoria, dando una scorsa a quel racconto pressoché dimenticato e riscoprendo che quel povero “gatto nero” era del tutto inoffensivo, tragico bersaglio e vittima di un padrone assassino paranoico.
Oggi, contemplando desolata le mie mani, ove compaiono segni pregressi di volontaria o involontaria forma di difesa regalati dai gatti che, in diverse stagioni e per vie traverse forse predestinate, sono stati letteralmente catapultati nel mio habitat familiare, confermo quanto sopra: nella vita “mai dire mai”. E sui gatti in specie ci sarà da spendere qualche bel discorso
Il primo amore
Boiss, così si chiamava il mio primo amore, ma… della specie canina. Era uno splendido esemplare di setter Laverack bianco e nero che accompagnava mio padre nelle sue frequenti sedute di caccia. E poiché anch’io, bambina, usavo seguirlo nelle sue operazioni venatorie, ricordo ancora quando il cane si acquattava nel sentore di una preda vicina. E quando, con un balzo dei suoi possenti muscoli, si lanciava in un’agile e veloce corsa verso la preda. Il “setter” prende infatti la sua etimologia dal verbo inglese “to set” (puntare), essendo un cane da punta e da ferma.
Ricordo anche, come fosse adesso, la sensazione provata nell’accarezzargli la testa e quelle orecchie nere a penzoloni. Era assai docile con tutti, tranne a dimostrare una certa idiosincrasia per l’abito talare, allorché si presentavano alla porta preti o frati, vestiti di lungo e scuro, inviati dalla parrocchia per le elemosine o per la benedizione pasquale. Si trattava sicuramente dell’invasione del suo territorio. Ma oggi mi avventuro a pensare – un po’ per sbrigliarmi dalle istruzioni degli etologi – ad un cane dalle tendenze… laiche.
Chissà se, per rincarare l’assurda congettura, dal momento che gli animali domestici potrebbero esser legati alla famiglia in una sorta di “vincolo substantiale ” (e non inorridiscano i filosofi), il cane non possa aver assorbito per vie del tutto misteriose il dna del mio bisnonno paterno, medico condotto di chiara fede massonica, il quale – per inciso non casuale – curò Garibaldi ferito a Mentana il 3 novembre 1867 durante la battaglia contro le truppe pontificie. Ma questa è un’altra bella storia familiare, laddove il parroco del paese, novello Don Abbondio, quella sera a cena dal bisnonno, corre a nascondersi in soffitta all’apparire delle giubbe rosse a cavallo spedite a casa del medico e di un pugnale regalatogli da Garibaldi e mai più trovato.
Ah, se ci fossero stati i cellulari!
Una conversione tardiva
Poi, a distanza di tanti anni, qualcuno introdusse di prepotenza nella mia vita la gatta Yasmina, trovata appena nata sotto un’automobile nel periodo delle nostre vacanze fuori Italia. Quel “qualcuno” era mio figlio allora bambino, il quale insistette tanto a portare a casa quel batuffolo di pelo che, in verità, straziava il cuore a lasciare in balia di qualche malintenzionato.
Mi sembra opportuno rettificare l’errore comune che si fa nel tradurre al femminile il nome Yasmina in Gelsomina, non essendo un nome di donna. In realtà, va tradotto nel sostantivo maschile del fiore “gelsomino“.
Cosicché quel fiore di gatta, rifugiata extracomunitaria ante litteram, fu imbarcata su un volo di linea dentro una minuscola gabbia. La cosa curiosa è che non ci fu posto alcun veto a quell’intrusione clandestina né richiesto alcun documento sanitario. Ma ancor più sorprendente è che, ad oggi, dopo circa trent’anni, le frontiere siano ancora dei colabrodo dove l’insufficienza dei controlli permette a certi noti ed ignoti individui di scorrazzare liberamente per l’Europa a far danni irreparabili.
Se Boiss vantava un pedigree col suo dettagliato albero genealogico, Giulietta è l’esempio della più spuria origine di felino domestico nato da qualche casuale ” love-affair ” nelle campagne della periferia tiburtina. Lei è una scuretta dal muso assai grazioso, con macchie sparse di bianco e giallino che colorano le sue vibrisse da un lato scure e dall’altro chiare. Insomma, una double-face, una sorta di domino veneziano che attrae tanto la curiosità dei bambini.
Mi piace ricordare che, quando Yasmina se ne andò per sempre nel suo paradiso coranico, per il dolore provato scongiurai mio figlio di non portare mai più in casa un qualsiasi animale. La tregua durò qualche anno, il tempo di metabolizzare quella perdita. Poi, un bel giorno lo vidi arrivare, ormai… cresciutello, con un fagotto in braccio. Che è, che non è,… era una gattina! Oh, nooo! Oh sììììì !! Pare che l’avesse salvata da qualche cane con intenzioni bellicose. Questo il fatale incontro con Giulietta. Cuore di madre, cuore di gatta, ormai i due cuori battono all’unisono.
Dell’elogio del gatto
Il gatto è una creatura assai speciale. Non a caso è ritenuto il compagno ideale delle persone che privilegiano le attività dello spirito, in particolare degli scrittori che amano la loro libertà come l’amano i gatti. Il gatto non invaderà i loro spazi di silenzio, non reclamerà di essere portato a spasso per soddisfare le sue esigenze fisiologiche.
A giustificare tale predilezione è l’abitudine del gatto a schiacciare ripetuti pisolini tra un pasto e l’altro. Dormirà nei posti più impensati, nei pertugi più nascosti della casa, magari in un armadio lasciato improvvidamente aperto, costringendoti a un certo punto alla sua affannosa ricerca ed uscendo fuori quando meno te l’aspetti.
Se lo chiami, non si muoverà dalla sua postazione, al contrario del cane che basta un fischio per ritrovartelo addosso. Il gatto invece, pur sentendo il tuo richiamo, se ne resta quatto quatto nel suo giaciglio, poi infine arriverà lemme lemme. Pur resistendo ai comandi, in certo modo anche lui ubbidirà. Tutto dipende da come e quanto gli si parli, dal rapporto che si instaura tra gatto e padrone, beninteso se il gatto è “figlio unico”, cioè unico animale della famiglia. In tal caso, sicuramente in grande sintonia con i ritmi circadiani del padrone e le sue abitudini giornaliere, col reale pericolo della cosiddetta “antropomorfizzazione”, laddove è possibile che i ruoli s’invertano e padrone di casa diventerà lui, Mr. Felix.
I sette anni della Cabala
E’ vero quindi che il gatto è uno che ama la sua “privacy” e le sue scelte, ma molto legato all’ambiente in cui vive e alle persone che l’abitano. E’ facile supporre che un’eventuale fuga possa avere il significato di una pausa in pura “autonomia” dal monotono governo familiare, lungi dal covare mire “secessionistiche”.
Lui tornerà, oh se tornerà! Sono infatti assai frequenti gli episodi di gatti andati smarriti e tornati a casa dopo ben sette anni in uno stato pietoso, anche da distanze di centinaia o migliaia di chilometri, valicando i territori più impervi e sconosciuti, guidati da quel loro inspiegabile sesto senso, o meglio…settimo senso.
Sembra strano che la casistica parli sempre dei fatidici sette anni. Infatti, il numero Sette viene indicato dalla Cabala come il numero della spiritualità alla cui sfera appartiene il gatto, ritenuto divino – come noto – nell’antica cultura egiziana. Lo stesso numero Sette è il numero puntualmente ricorrente nella logica architettonica dei monumenti egizi come nella letteratura biblica, col preciso riferimento a coordinate astronomiche. Come in cielo così in terra, un legame eterno.
Le “fusa” come un mantra
La natura ha voluto dotare il gatto di quella strana capacità gutturale delle “fusa”, vibrazioni sulla cui origine, diciamo meccanica, gli stessi studiosi della biologia animale faticano a trovare un punto d’ incontro. Tuttavia, si sa che rappresentano per il gatto un momento di rilassamento, di piacere dopo un buon pasto, ma talvolta anche il messaggio di un disagio fisico.
Mi piace collegare questa prerogativa felina a quei canti modulati su una sola nota che gli sciamani Kazachi usano per evocare gli “spiriti della natura-madre”. Questa la peculiarità del gatto, il suo accostamento al soprannaturale, le sue “fusa” come un mantra che risveglia le energie interiori. Insomma, un mezzo di recupero fisico, quasi una sorta di training autogeno.
Ma certe cose Giulietta non le sa…
Ignara depositaria di quelle energie che la legano al divino, rincorre i suoi desideri più immediati del “mangiaedormi”, sognando il tepore della “mamma” mai conosciuta, ritrovato in quella adottiva. In quei polpastrelli di velluto, come in uno scrigno, cela i suoi artigli retrattili che vibrano guardinghi, pronti a sferrare il loro attacco. Come dire, pugno di ferro in guanti di velluto.
Il tempio delle Tigri
Non può non venire in mente la famosa “Casa delle Tigri” in Thailandia, dove un gruppo di monaci buddisti vivono a stretto contatto con questi temibili felini. Il segreto di tale incruenta comunione? E’ l’allontanamento della paura, la coscienza di poter dominare questi animali, che rappresentano secondo il buddismo lo strumento per eccellenza al fine di raggiungere la cosiddetta “illuminazione“. Che la mia piccola tigre possa aiutarmi in tal senso?
Tant’è, la scienza si affianca alla religione con l’ austriaco Konrad Lorenz (1903-1989), premio Nobel per la Medicina nel 1973 e padre della moderna Etologia, il quale ci ha offerto in merito le più ampie spiegazioni nella sua vasta produzione letteraria sia sul comportamento degli animali nel loro ambiente naturale che in cattività.
It’s raining cats and dogs
Chiudo infine questa lunga tirata sui nostri amici animali con una curiosa frase idiomatica, che in inglese significa letteralmente “sta piovendo cani e gatti” e in italiano “piove a catinelle“.
Infatti fuori piove, ma non vedo scendere dal cielo cani e gatti, risucchiati dai frequenti vortici d’aria del momento. Scorgo invece soltanto la “divina” appostata davanti alla sua ciotola, nel muto e assai loquace sms “Ricordati di me”.
Si è fatto tardi. Mi sono limitata a tracciare, in tono leggero, un ricordo strettamente personale dei miei amici, alla possibile ricerca di una loro identità, talora al di là del modello canonico. E di ciò mi perdoneranno “i due o tre lettori” ( parafrasando lo scomparso Pitigrilli ). Se pioverà “cani e gatti”, ben venga questa benefica bomba d’acqua a rammentarci che nel mondo tanto combattuto esistono ancora e sempre i luoghi della bellezza, quelli della pacificazione interiore. Forse l’approdo in un luogo-non luogo, un chimerico Shangri-Là che ci compensi delle nostre umane debolezze.
Ciò detto, senza timore di cadere nella sognante retorica.
Angela Grazia Arcuri