La villa di Fregene che incantò Moravia

C’erano estati, negli anni Sessanta, in cui il cuore della mondanità culturale non batteva a Roma né a Capri, ma in un angolo appartato del litorale laziale: Fregene.
All’epoca questa era ben più che una località balneare, si trattava infatti di un laboratorio sociale dove intellettuali, architetti, attori e cantanti si mescolavano tra pinete e tramonti infuocati. Passeggiando lungo il litorale, ancora oggi, ci si può imbattere in una specie di miraggio, una casa che galleggia tra cielo e acqua proprio all’estremità di Fregene, là dove il fiume Arrone incontra il mare.
Se ci si avvicina, si scopre che il miraggio è realtà, e così prende corpo uno dei simboli più autentici e affascinanti della florida stagione culturale che ha attraversato l’estate romana del secondo Novecento. Si tratta della villa costruita per Alberto Moravia, una palafitta moderna diventata prima un rifugio letterario, e successivamente una vera e propria icona del cinema italiano. Lo scrittore romano, voce lucida e spietata della borghesia del suo tempo, trovò in Fregene il nido perfetto: non un luogo da cartolina, ma un avamposto sul mare dove pensare, scrivere e osservare.
Dopo l’alluvione del 1965, che distrusse tragicamente – tra le altre cose – la piccola casa in legno dove lo scrittore trascorreva le estati fin dagli anni Cinquanta, Moravia decise di ricostruire sullo stesso terreno. L’autore, in segno di ammirabile resistenza spirituale, ignorò le indicazioni della Capitaneria di Porto, che suggeriva di spostare l’abitazione in posizione più arretrata rispetto al corso del fiume, preferendo arditamente la nostalgia e la sensazione di casa alla tecnocrazia imperversante: scelse di restare lì, affacciato sull’acqua, quasi come fosse il custode di un legame profondo con il paesaggio e della memoria del Villaggio dei Pescatori.
L’incarico per il progetto della nuova casa fu affidato all’architetto Maurizio Aymonino, che nel 1966 diede forma a un’abitazione rigorosa e semplice sollevata su dei piloni, con linee essenziali e materiali volutamente poveri. Gli interni invece furono curati da Giuliana Lippi Boncampi, la quale ne enfatizzò magistralmente l’anima sobria e naturale lasciando che fossero la luce e i tramonti ad animare gli spazi.
La casa di Moravia era più di un’abitazione, era un’estensione dell’identità dello scrittore, una dimora capace di dialogare con l’ambiente circostante. Per Moravia il mare era un compagno costante: lo ispirava, lo calmava, lo accompagnava nei pensieri e nella scrittura, perciò la villa a Fregene divenne il simbolo perfetto di questa relazione. Il premio Strega vi abitò fino al 1973, quando decise di cederla a due amici pittori, Enzo Brunori e Vittoria Lippi, la cui famiglia custodisce ancora oggi le mura di un’eredità culturale prima che patrimoniale.
La storia della casa però non si chiude con la scrittura, anzi questo è solo l’inizio della vita eclettica di questo edificio. A partire dagli anni Settanta, la villa cominciò a comparire in una lunga serie di produzioni cinematografiche e televisive, da “Dov’è Anna?” a “Il Gatto”, da “Amo non amo” a “Letti Selvaggi”, tutte opere in cui gli interni e gli esterni della casa sono divenuti lo sfondo perfetto per racconti di ogni genere.
Dopo una pausa durata diversi anni, la villa è tornata sullo schermo con “Cha Cha Cha” (2013), “Il coraggio di vincere” (2017) e “Restiamo amici” (2018), fino ad arrivare alla serie “Vita da Carlo” di Carlo Verdone, che nel 2020 ha girato – non a caso – alcune scene proprio in via Silvi Marina.
A rivederla oggi, Casa Moravia conserva intatta la sua aura: ha mutato pelle, certo, seguendo il tempo e i suoi ospiti che ne sono divenuti padroni, ma resta pur sempre un oggetto architettonico raro e denso di ricordi e significati. Sospesa tra arte e natura, custode discreta di un passato intellettuale e creativo, sentinella solitaria di un tratto di costa che un tempo fu laboratorio culturale d’élite, la villa racconta ancora – a chi vuole ascoltarla – di un’Italia che sapeva essere leggera e profonda allo stesso tempo, di un’estate dove si leggevano romanzi sulle sdraio, si progettavano case moderniste accanto ai pini e si giravano film tra le dune.
L’omaggio perdurante resole dal cinema rende la villa uno di quei luoghi che, pur cambiando, sembrano non perdere mai la propria voce, e guai se così non fosse. La memoria collettiva che dà e riceve l’abitazione, narratrice autentica della fusione tra costume e società, permette di specchiarsi – letteralmente – nel riflesso di un breve ma luminoso momento in cui cultura, società e paesaggio, hanno saputo fondersi perfettamente.