La storia del referendum

Non capita spesso che ci venga chiesto direttamente un parere sulle leggi del Paese. Di solito votiamo i politici, poi tocca a loro fare e disfare. Ma c’è un’eccezione importante: il referendum abrogativo. È uno strumento potente, che sostanzialmente ci mette in mano una gomma (per cancellare una legge) invece della solita matita. Ma com’è nato questo strumento? E cosa ci abbiamo fatto finora?
Il referendum abrogativo esiste sulla carta dal 1948, grazie all’articolo 75 della Costituzione. L’articolo dice che, se lo chiedono 500.000 cittadini oppure 5 Consigli regionali, si può indire un referendum per cancellare, o meglio abrogare, parzialmente o in toto una legge dello Stato.
Ma c’è un limite importante: il referendum può solo eliminare una legge, non può crearne una nuova. E non può nemmeno toccare la Costituzione: per quella ci sono altri strumenti.
Anche se previsto fin dall’inizio, per oltre 20 anni il referendum è rimasto una bella idea mai realizzata. Fino al 1970, mancava una legge che spiegasse come organizzarli concretamente. E senza regole, si sa, non si gioca.
La svolta arrivò con la legge 352 del 1970, che finalmente mise nero su bianco come si fanno i referendum. Ed è da lì che inizia davvero la storia del referendum abrogativo in Italia.
Il primo grande banco di prova arrivò quattro anni dopo, nel 1974, quando si andò a votare in merito ad una legge del 1970, non la 352 sopracitata, bensì la famosa 898 che aveva introdotto il divorzio in Italia, con alcune forze cattoliche (Democrazia Cristiana in testa) che proposero di abrogarla tramite referendum.
Il Paese si spaccò. Da una parte c’era chi diceva che il divorzio minava la famiglia tradizionale. Dall’altra chi parlava di libertà di scelta e diritti civili. Alla fine, vinsero i NO con il 60% dei voti; il divorzio rimase.
Negli anni successivi, i referendum diventarono una voce sempre più forte nella politica italiana. Tra i principali:
- 1981: due referendum per abolire la legge sull’aborto. Vinsero i NO: la legge restò.
- 1987: dopo Chernobyl, gli italiani votarono per dire addio al nucleare.
- 1993: in pieno scandalo Tangentopoli una raffica di quesiti sui finanziamenti ai partiti, le carriere dei magistrati, il sistema elettorale referendum che segnò l’inizio della fine della Prima Repubblica.
C’è però un ostacolo non da poco: il quorum. Perché un referendum sia valido, deve andare a votare almeno il 50% + 1 degli aventi diritto, di conseguenza negli anni, si è diffusa la “strategia dell’astensione”: chi non vuole che il referendum passi, invita a non andare a votare, sperando che il quorum non venga raggiunto. Dal momento che anche se il 90% votasse Sì, se ha votato solo il 40%, il referendum è nullo.
Così sono andati a monte tanti referendum anche con risultati netti. Come quelli sul nucleare del 2009, sull’articolo 18 del 2013 o su acqua pubblica e servizi nel 2011 (solo uno su tre superò il quorum).
Negli anni ‘70 e ‘80, ai referendum andava a votare anche l’80% degli italiani. Oggi è un miracolo se si arriva al 50%. Il referendum, da arma democratica, rischia di diventare uno strumento spento, uno spreco di denaro pubblico.
Forse ha senso interrogarsi sulla matrice di questa tendenza: la colpa è da attribuire ad un maggiore disinteresse alla politica del popolo italiano o all’utilizzo sconsiderato di questo strumento come fosse una sorta di sondaggio per i partiti di opposizione?
Molti costituzionalisti chiedono dunque di cambiare il sistema. Alcuni propongono di abbassare o eliminare il quorum, altri di calcolarlo solo sugli elettori “attivi” (cioè quelli che votano davvero alle politiche) e non su tutti gli aventi diritto. Anche se, forse, privare il cittadino della libertà di esprimersi (andando o meno a votare) non rappresenta proprio la più alta forma di democrazia.