Il buzkashi: lo sport di Gengis Khan arrivato fino ai giorni nostri

Nel cuore delle steppe dell’Asia Centrale sopravvive uno sport antichissimo, affascinante e cruento,
apparentemente ignoto a noi occidentali: il buzkashi. Tradotto letteralmente come “acchiappa la capra”, questo gioco affonda le sue radici in un tempo lontano, fatto di popoli nomadi, cavalli indomiti e un legame profondo con la terra dell’Est e le sue tradizioni.
Il buzkashi è molto più di una semplice competizione sportiva. È un rito collettivo, una narrazione vivente della storia di popoli – turchi e mongoli su tutti – che hanno segnato la cultura asiatica. L’origine, secondo la leggenda, risale all’epoca delle invasioni mongole: si racconta che i prigionieri di guerra venissero usati come “trofei” durante delle “giocose” contese violente tra cavalieri; con il tempo quest’antica tradizione si sarebbe evoluta portando lo sport a com’è oggi, vale a dire ancora una competizione a cavallo, derogando però al corpo del nemico come oggetto di gioco in favore della carcassa di una capra.
Oggi il buzkashi è riconosciuto come sport nazionale in Afghanistan, Kazakistan e Kirghizistan, ma è praticato anche in Tagikistan, Turkmenistan, Pakistan e Uzbekistan. Persino negli Stati Uniti si tengono rievocazioni di questo sport grazie a esuli e discendenti di famiglie emigrate che lo hanno portato oltreoceano come si fa con le proprie radici più profonde, quelle che raccontano chi sei.
Il terreno di gioco, spesso grande più di un campo da calcio, ospita due squadre composte da un numero variabile di “chapandoz”, cavalieri professionisti che si affrontano per strappare la carcassa dell’animale agli avversari e portarla in un’area prestabilita oltre un certo segno (come fosse una meta del rugby). Emblema di una tradizione antica e cruenta, il buzkashi si svolge senza particolari regole comportamentali, tra spintoni, frustate – al cavallo o agli avversari – cadute rovinose e gesti che uniscono abilità e coraggio a una notevole dose di stravaganza.
In passato il gioco si svolgeva tutti contro tutti, ma col tempo si è passati alla suddivisione in due squadre (che vanno da un minimo di 10 cavalieri fino a anche oltre cento per squadra) rendendo l’incontro più organizzato. Recentemente si è anche cercato di regolamentare l’attività introducendo caschetti imbottiti, degli arbitri, una durata ufficiale fatta – almeno in Afghanistan – di due tempi da 45 minuti, e il divieto di colpi intenzionali contro gli avversari.
Nonostante la violenza, il buzkashi continua tutt’oggi a radunare folle di appassionati. Attorno al campo il pubblico tifa, scommette ed esulta. I vincitori dell’incontro ricevono premi che vanno dal semplice servizio di piatti a beni di alto valore, ma, su tutto, la ricompensa della vittoria è una ricompensa sociale: il rispetto di una comunità verso chi, a cavallo, incarna la memoria degli antenati. Peraltro il buzkashi, storia e mito dall’Asia centrale fino in Medio Oriente, non è davvero così sconosciuto alla nostra cultura, tanto che questo è stato raccontato anche al cinema, e infatti compare sia in “Rambo III” che in “Cavalieri Selvaggi” di John Frankenheimer.
Tuttavia, nessuna pellicola potrà mai restituire fino in fondo l’atmosfera di questa competizione: il ruggito degli zoccoli, le urla dei cavalieri e la polvere che avvolge tutto come una nuvola mitica.
In un mondo globalizzato e globalista che tende a uniformarsi, il buzkashi resta una dichiarazione d’identità: si tratta del grido fiero di un popolo che cavalca ancora con il vento tra i capelli, conservando il frammento di un tempo antico in cui la vita era corsa, sfida e appartenenza, e forse, proprio per questo, era una vita più “viva” di quella che viviamo adesso.