Anni selvaggi. L’animo strapaesano di Mino Maccari

Se si vuole davvero capire l’atmosfera culturale che si respirava nel pur plumbleo quindicennio che va dalla fine del primo conflitto mondiale fino alla definitiva ascesa del regime fascista, non si può prescindere dall’analizzare due momenti cruciali come la nascita dei movimenti di Stracittà e Strapaese.
Eppure, se il lettore più smaliziato volesse approfondire l’argomento, la bibliografia di supporto appare insoddisfacente, nonostante i nomi che contribuirono a quel dibattito furono di primissimo piano nei decenni successivi.
Da un lato gli stracittadini si riunivano attorno alla rivista 900 – Cahiers d’Italie et d’Europe, fondata da Massimo Bontempelli e Curzio Malaparte nel 1926 con il chiaro obiettivo di sprovincializzare la cultura italiana dell’epoca, vedendo nel fascismo il principale alleato per definire il nuovo gusto estetico di cui si sarebbe permeata la modernità.
Noti stracittadini furono Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Emilio Cecchi. Ma anche – tra gli stranieri – James Joyce e Ramón Gómez de la Serna.
Dall’altra parte della barricata invece gli intransigenti difensori dell’anima rurale del nostro paese, di una heimat da preservare costi quel che costi. Un’Italia fiera, tradizionale, patriottica che verrà raccontata – e criticata – sulle pagine de «Il Selvaggio», periodico nato a Colle Val D’Esa, nella provincia senese, per volontà di Angiolo Bencini e Mino Maccari e che aggregherà, nella sua seppur breve vita, personalità come Soffici, Morandi, Longanesi, Palazzeschi, Malaparte, Ungaretti, De Pisis, Guttuso, Flaiano, Cardarelli.
Di questa seconda esperienza, con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue discrasie nei confronti di un regime tanto seguito quanto aspramente criticato, ne analizza gli aspetti Damiano Rossi nel suo libro dal titolo Anni Selvaggi – L’avventura strapaesana di Mino Maccari (Editore GOG).
Lo abbiamo intervistato.
Da dove parte l’esigenza di approfondire un tema forse troppo poco dibattuto come l’esperienza di Mino Maccari e «Il Selvaggio»?
Distinguerei due diversi piani complementari, in molti punti tangenti ma comunque distinguibili per diversità di causa ed impulso. Da un lato direi la curiosità empirica della ricerca, dunque un aspetto che potrei definire di sostanza tecnica o materiale. Il libro nasce da un progetto di tesi per l’Università la Sapienza di Roma partendo da un vulnus della ricerca storico-editoriale, l’assenza di studi monografici sulla rivista «Il Selvaggio». Se non brevi digressioni inserite nell’ambito di più ampie analisi a carattere soprattutto letterario o brevi excursus, spesso di tipo giornalistico o memorialistico, ho percepito un significativo deficit nella ricostruzione storica della vita artistico-editoriale del giornale. La storiografia di riferimento sembrava mancante di un tassello che restituisse nel suo complesso un’esperienza articolata e per certi versi di difficile interpretazione come quella del «Selvaggio». Tali ricostruzioni inoltre, per motivi cronologici, erano mancanti dei progressi compiuti dalla ricerca nello studio del fascismo, penso ad esempio al confronto storiografico sull’esistenza di un’effettiva cultura fascista o diversamente di una cultura durante il ventennio fascista, sfumatura non da poco concettualmente. Infine l’altro piano è quello che definirei prettamente personale, una mia passione e debolezza emotiva per gli irregolari, gli eretici, per chi è alla ricerca sempre di qualcosa, l’Ismaele irrequieto. Mino Maccari e i “selvaggi” hanno significato per me anche questo, un gusto per una irriverenza che non si piega seppur sconfitta.
A un certo punto del libro scrivi:«Il culto della giovinezza, dell’azione violenta, della mitopoietica squadrista diveniva così manifestazione di un primitivismo selvaggio, spirito ribellistico influenzato dalle avanguardie artistiche del Novecento, specchio di uno stile di vita non vincolato da regole borghesi».
Quello che è, a tutti gli effetti, il vero habitus morale del «Il Selvaggio», può essere stato al tempo stesso anche la sua condanna a morte?
La difficoltà nello studio interpretativo del “Selvaggio” consta proprio nella sua doppia natura o meglio in un carattere unico ma dal duplice volto. Intellettuali integrati o fronda interna al regime? Artisti alla corte del tiranno o voce irriverente della critica? Ritengo che «Il Selvaggio» e Strapaese siano stati marginalizzati dal fascismo perché corrente artistico-concettuale egemonicamente sconfitta nell’ambito dell’evoluzione degli obiettivi pragmatici del regime. Il loro tentativo di porsi come ispirazione dell’uomo nuovo fascista, citando Emilio Gentile, è naufragato da un lato davanti alla necessità del fascismo di stabilizzare le strutture del regime, marginalizzando le tendenze centrifughe interne, dall’altro dall’imporsi di nuove forme mitopoietiche più funzionali, penso al mito della Roma imperiale.

Mussolini e «Il Selvaggio». Un rapporto di amore e odio tra fascisti intransigenti e normalizzazione dello squadrismo. Alla fine chi la spunta?
Il rapporto tra «Il Selvaggio» e Mussolini è complesso. I “selvaggi”elaboreranno una dialettica critica con il futuro duce del fascismo, tanto da venire più volti censurati seppure il giornale potrà continuare le sue pubblicazioni. Sulle pagine della rivista non mancheranno veri e propri attacchi a personalità di spicco del fascismo e anche allo stesso Mussolini. Sicuramente “Il Selvaggio” subirà un progressivo processo di marginalizzazione da parte del regime, segnando il successo di altre forme di linguaggio artistico-politico. Proprio il binomio arte-potere è la chiave per comprendere la vicenda della rivista, oltre a porci notevoli interrogativi su che cosa sia stato effettivamente il processo artistico all’interno dei regimi totalitari e più in generale nella capacità “politica” stessa, in senso gramsciano, dell’arte. Senza dubbio ad uscire vincente sarà il modello di un fascismo-regime normalizzato.
Nella sua prefazione al libro, Stenio Solinas ritiene che per capire Mino Maccari bisogna partire dagli olii della serie Dux, dipinti nel periodo in cui Mussolini viene arrestato, il 25 luglio del 1943. In sostanza Solinas sostiene che Maccari attraversa il Ventennio con la medesima attitudine: «rissoso e iconoclasta, beffardo e sanguigno, ghignante e disperato». Sei d’accordo con questa analisi?
Il mio lavoro sul “Selvaggio” si è basato sulla tesi di una forte continuità nelle alterne vicende della rivista. Rispetto a letture che attuavano cesure nette nell’interpretazione storiografica del giornale, basandomi sulla lettura dei numeri della rivista e l’analisi del quadro complessivo del fascismo, ho colto un filo rosso, una coerenza concettuale di fondo nel lungo viaggio dei “selvaggi” nel Ventennio. Tale continuità è in grado a mio avviso infatti di superare, analizzando il sostrato di fondo delle manifestazioni artistico-politiche della rivista di Maccari, alcune discrepanze o salti interpretativi che non tengono conto delle origini e dell’evoluzione coerente della complessiva vicenda della rivista.

Scrive Orco Bisorco che Strapaese è «né fenomeno di estetismo, né un aspetto di gretto regionalismo o campanilismo». Forse invece, nella vulgata, Strapaese è stato concepito esattamente entro quelle coordinate. Come è possibile questa inversione dei valori?
Basandomi sulla mia ricerca ho riscontrato come il movimento di Strapaese abbia subito un processo interpretativo semplificatorio. Una forma di giudizio più che di comprensione, riferendomi agli insegnamenti di Marc Bloch. Interpretare Strapaese solo come fenomeno puramente estetico limita il ruolo “politico” che la rivista svolge nel panorama del Ventennio. D’altra parte averlo interpretato come puro fenomeno di provincialismo di tipo arcadico o tradizionalismo conservatore ritengo sia stato una forma di semplificazione funzionale ad uno schema bipolare tra modernità e tradizione, tra progresso e conservatorismo, tra avanguardismo e ritorno all’ordine, tipico di una certa visione storiografica a linguaggio binario. “Il selvaggio” con tutte le sue contraddizioni appare porsi come fenomeno in realtà duplice non rifiutando la modernità ma elaborando un diverso tipo di modernità basato sulla tradizione italiana. Per tale ragione Strapaese sembra rompere la gabbia di una polarizzazione duale che lo vorrebbe forma di “catonismo”, fenomeno ruralistico a matrice conservatrice, definendosi invece nella realtà storica come un più articolato e complesso “modernismo antimodernista” o una visione di “modernismo alternativo”.