Il ruolo del voto plurimo nel passaggio generazionale

Con il termine voto plurimo si fa riferimento ad una classe di azioni cui è attribuito un diritto amministrativo potenziato, fino ad un massimo di tre voti. Le azioni a voto plurimo – anche definite sotto il nome inglese di multiple vote sharing structure – possono essere qualificate come “azioni di comando”, le quali consentono di raggiungere la maggioranza dei voti esercitabili in assemblea senza la detenzione di una corrispondente partecipazione di maggioranza nel capitale sociale.
In Italia, durante la vigenza dei codici di commercio del 1865 e del 1882 era diffuso l’impiego delle azioni a voto plurimo, a differenza del Codice Civile del 1942 che, invece, sanciva perentoriamente il divieto di emissione di azioni a voto plurimo: il previgente art. 2351, co.4, c.c. disponeva, infatti, che “non possono emettersi azioni a voto plurimo”.
Il “Decreto Competitività” del 2014 è intervenuto in netto contrasto con questa regola cardine del diritto societario di derivazione codicistica, secondo cui ad ogni azione sarebbe dovuto corrispondere uno ed un solo diritto di voto.
A tal proposito, un emendamento convertito con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n.116, ha emendato l’art. 2351, co. 4, c.c. stabilendo che, salvo quanto sancito da leggi speciali, lo statuto delle S.p.A. non quotate può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo. Gli statuti delle società azionarie non quotate italiane possono dunque, dal 21 agosto del 2014, creare legittimamente categorie di azioni a voto plurimo; e ciò anche nella prospettiva di una loro imminente quotazione, essendo espressamente contemplata l’ultrattività delle categorie a voto plurimo anche in tale scenario evolutivo della società emittente.
Nelle società quotate, invece, nonostante permanga il divieto di emissione di azioni a voto plurimo, questo viene, da un lato, circoscritto alla sola nuova emissione di tale categoria di azioni, conservandosi il privilegio in capo ai titoli emessi ante quotazione, e, dall’altro, mitigato dalla possibile introduzione in via statutaria del meccanismo della maggiorazione del voto, la cui introduzione ha indotto, per coerenza, all’abrogazione del divieto delle speculari clausole di scaglionamento originariamente precluse dall’art.2351 c.c. a tutte le società aperte.
Il tessuto economico italiano è composto in prevalenza da imprese a gestione familiare e, conseguentemente, il passaggio generazionale rappresenta un tema di grande interesse per le società.
In questi termini, le azioni a voto plurimo possono costituire un valido strumento di pianificazione del family business, in particolar modo nella scelta del futuro leader della società familiare. Ad esempio, nell’ottica di dare miglior continuità di governo e controllo societario, l’imprenditore potrebbe trasferire la propria partecipazione a tutti gli eredi in ugual misura tra loro e attribuire soltanto al successore, ritenuto più idoneo per capacità manageriali, le azioni munite di voto plurimo. Questa scelta non causerebbe alcuna lesione di legittimità.
Le azioni a voto plurimo, in quest’ottica, potranno essere istituite sia in fase di costituzione della società che durante la fase di vita operativa con delibera modificativa dello statuto sociale, attraverso le maggioranze richieste dall’assemblea straordinaria. Pertanto, appare ragionevole ritenere che sia ugualmente raggiunto il consenso unanime tra i soci, alla luce del diritto di recesso riconosciuto a coloro che non hanno concorso all’assunzione di tale deliberazione, così da evitare dannose conseguenze negative per l’intera compagine sociale.