Rock the Casbah
Ho paura nel mio appartamento, ho paura 24 ore al giorno, ma non necessariamente a New York. Anzi mi sento piuttosto a mio agio a N.Y. Mi spavento tipo in Svezia: sento un certo vuoto, sono tutti ubriachi, funziona tutto. Questo tipo di cose mi spaventa. New York no!
Lou Reed
C’è un esercizio retorico che in Italia entusiasma giornalisti, politici, artisti e gente comune da più di un secolo: Roma o Milano? Una sfida che spesso è degenerata in una stagnante polemica da bar nella quale tutti, in forma più o meno becera, ci siamo battuti almeno una volta gettando all’aria anni di buone letture e di buone maniere. Uno degli esempi meno noti di questa annosa, noiosa, disputa italica si può rintracciare in una mai più ripubblicata inchiesta a puntate di “Paese Sera” intitolata: “Milano o Roma? Un dilemma rabbioso”. Addirittura! Ad animare questa inchiesta dei primi anni ‘60 è Adele Cambria, una protagonista del femminismo italiano che proprio in quegli anni esordisce come giornalista tra lo stramilanese “Il Giorno” e il romanissimo “Paese Sera”. Queste città le conosce bene quindi e chiama a raccolta una decina di nomi da far tremare i polsi: Fellini, Arbasino, Valeri, Pasolini, Olmi, Vittorini, Vanoni, Piovene, Fracci, Morante, Moravia, Testori. Girato l’angolo dei nomi altisonanti e della bella prosa si torna a fare i conti con una serie di luoghi comuni: operosità, bellezza, luce, ordine, libertà, serietà, indolenza, arroganza, nebbia. Per farci un’idea, Milena Milani interviene così: “mi considero fortunata perché vivo a Milano e a Roma. A Roma vivo all’ultimo piano in un palazzo di studi di pittori, ho un caos di carte sul tavolo e faccio vita bohème, cioè mangio quando mi pare, scrivo tutta la notte, suono dischi, fumo, mi ubriaco. A Milano sono più organizzata, mangio regolarmente, ho anche una domestica, ho la televisione”. E citandola abbiamo sorvolato i passaggi sulla malinconia suicida ispirata dalla nebbia e l’elogio del bonario catcalling alla romana, ma il vortice di banalità coinvolge anche i nomi più illustri e si tinge di ridicolo anche se la forma è un po’ meno naïve e risente della retorica marxista-militante di quegli anni. Così Moravia: “Roma è una città burocratica ed amministrativa nella quale il processo produzione-consumo mancando del primo termine non ha il carattere di spirale che ha Milano. Il consumo senza produzione conferisce a Roma, da una parte un aspetto meno moderno, ma in compenso assicura allo sviluppo della persona umana uno spazio maggiore”. I toni sono quasi sempre privi di leggerezza spesso conditi da vagiti protoleghisti: “Roma è una spesa di rappresentanza, a Milano si lavora davvero”. Seguono Franca Valeri che prende le distanze da Milano e Elsa Morante che sputa veleno su Roma: piccole infamie, tradimenti che conosciamo bene anche oggi e che molte famiglie si rinfacciano solitamente a Natale una volta riunite dal Frecciarossa. Tra le firme Arbasino giganteggia con consueta aristocratica sufficienza e poi Fellini certo fa Fellini: “Milano mi ispira il rispetto e il fastidio che i bambini provano per il mondo degli adulti” e Pasolini fa Pasolini: “Roma e Milano sono cresciute, ma la crescita non è stata molto armoniosa. Si sono sviluppate come certi ragazzini hanno una disfunzione alle ghiandole: enormi e informi”. Gadda, molto prima di lui, usò grossomodo la stessa immagine per demolire la sua Milano diventata “come certe ragazzone dementi venute così alla buon’ora e nell’abbandono di tutti, a furia di polenta e di busse”. Tornando all’inchiesta di Paese Sera, Vittorini si sente tradito da Italo Calvino trasferitosi a Roma, Ornella Vanoni trasferita rimpiange la puntualità del nord, conclude infine Carla Fracci sull’importanza del “giallino polenta delle mura milanesi”, e infatti di trasferirsi lei non ci pensa proprio. Poi un lampo finalmente violento e commosso: “Noi milanesi siamo prudenti a parlare, le parole contano per noi. Ma l’idea che ho di Roma è questa: un troiaio! È una città senza tristezza, quindi senza verità”. Giovanni Testori non solo ha il coraggio dell’affondo viscerale, dell’invettiva diretta, dell’insulto senza banalità campanilistiche, Testori liricamente apre la questione più drammatica e tutta contemporanea sulla verità e la menzogna espresse dalle città oggi.
Roma o Milano ora non c’entrano più nulla, non ci interessa più la sfida perché l’interrogativo essenziale che ci poniamo grazie a Testori è se oggi esiste ancora la città o sia evaporata sotto i nostri occhi senza neanche accorgercene. La tristezza appunto come sinonimo di verità, realtà, quel luogo esteso di ombre e contraddizioni è stata abolita ovunque. La città è ormai un territorio esploso non da un punto di vista urbanistico ma antropologico, sentimentale, erotico: la città non è più corpo diffuso da assaggiare, profanare, attraversare liberamente ma sopravvive soltanto nella fantasmagoria di sé stessa, nel proposito continuamente performante e spettacolare. La città oggi è pensata e vissuta come rete di limitazioni, divieti e chiusure ai cittadini comunicate come passi necessari verso una civiltà non meglio precisata: l’expat o il turista, il city user come si ama dire, deve essere rassicurato attraverso eventi internazionali, isole pedonali, piste ciclabili, città a 15 minuti, zone a traffico limitato, ma la città è per sua natura traffico di corpi, di idee e desideri irrisolti scandalosi e dissonanti. Come in un romanzo distopico gli annunci e le indicazioni stradali a Milano non richiamano più i nomi dei quartieri, ma zone numerate. Al contrario per rendere più commerciali possibili quartieri, una volta irrecuperabili, è necessario esasperare parossisticamente un’identità periferica che diventa bene di consumo e perde sé stessa, nel momento in cui viene celebrata dai media e dagli uffici marketing immobiliari. O sono la medesima cosa? I romani invece percepiscono ormai sempre meno la città nella sua organica interezza e sempre più come agglomerato di terre ostili. Il suo corpo urbano non è più desiderabile, anzi “fa schifo” come da populistica tendenza digitale e le generazioni più giovani sono terrorizzate dal suo attraversamento: distanze, traffico, insicurezza, spauracchi insinuati e certificati da chi ha cuore soltanto uno stato d’emergenza permanente e frustrante. Tutti hanno rimosso stagioni in cui le strade davvero grondavano sangue; generazioni falciate via dalla logica degli opposti estremismi, dell’eroina o da una malavita feroce e diffusa in ogni quartiere. I ragazzi oggi dunque non guadano più la città, Roma non è più una giungla esotica da esplorare a volte con sospetto ma comunque in ogni sua traiettoria, attratti dall’ignoto di un magma erotico di linee e storie in conflitto tra loro. Roma è immaginata sempre più a compartimenti stagni. Ognuno autorecluso nelle proprie enclave ludiche, isole autarchiche che a secondo del prodotto sociale prendono le sembianze di ricercate enoteche di vini naturali o stranianti slot machine center. Ancora si dice “Roma e le sue città”. Una locuzione nata per celebrare l’identità plurale della Capitale ha poi finito per cristallizzarsi certificando una frattura geo-sentimentale, e se è vero che la città nella sua crescita esponenziale ha sempre nutrito nuove zone autonome spesso differenti e diffidenti tra loro: borgate lontanissime, zone residenziali, quartieri semi borghesi o popolarissimi, è vero anche che non si era mai avvertito un atteggiamento così divisivo della città. I romani anzi hanno sempre surfato su questa fortissima vocazione centripeta, da “fuori” si andava a Roma e il viaggio metropolitano non si fermava, il centro veniva prima profanato, assimilato, nutrito a sua volta di linguaggi rinnovati, stranieri, stranianti e poi abbandonato verso nuovi spazi di conquista: percorsi intermittenti o circolari.
La politica e le sue piazze, lo stadio e le sue curve, la musica e suoi locali univano tribù separate socialmente e geograficamente, un dialogo incessante che rigenerava continuamente l’identità romana. Persino il corteggiamento, le amorose attenzioni o meglio il romanissimo rimorchiare con il suo significato letterale ha veramente trascinato per amore i romani da una parte all’altra della città fondando nuovi clan, parentele, comitive, “matrimoni territoriali”. Il viaggio verso e “fuori” Roma era una scoperta sfibrante, ma emozionante mai terrifica: oggi tutti “flaneur a km zero” mi ripete Stefano Ciavatta che della comprensione profonda e sensuale della città eterna ha fatto una missione letteraria e umana. Invece la narrazione di Roma è oggi sempre più incattivita, nutrita da una psicogeografia antagonista tra micro-città interne e interiori in lotta tra loro: dalla stimolante ed esoterica “borgatasfera” di Valerio Mattioli alla demenziale Roma Nord/ Roma Sud di Romolo&July il passo è più breve di quello che si pensi.
In questo senso “Roma e Milano” tornano a essere rilevanti non più come goliardica dicotomia campanilistica ma come cartina di tornasole sullo stato di salute (mentale) delle città: Roma anestetizzata da un passato castrante che tutti conosciamo e Milano uccisa dal simulacro di un futuro che non stiamo comprendendo.
Roma, come la maggior parte delle città d’arte, è rimasta infettata dalle sue stesse cure benefiche, prigioniera di un’utopia archeologica, ostaggio di chi ha voluto trasformarla in un parco a tema. Il residente del centro, sempre più disincentivato a restare, è stato percepito come una cellula oscena e incontrollabile rispetto allo straordinario patrimonio che lo circonda. La priorità è stata sorvegliare e punire, escludere, rimuovere l’informale in favore di una città etica, mai più spazio aperto, polifonico, teatro di pensieri liberi e gesti umili, quotidiani, gratuiti, scandalosi, gli stessi che in teoria definiscono la coscienza stessa di una città. Il suo centro è ormai Storia senza storie, area amorfa, illuminata pornograficamente e sempre più inaccessibile a causa del proliferarsi di isole pedonali pensate teoricamente per la popolazione e invece consegnate mani e piedi all’impresa privata che ne ha fatto food district sconfinati, dal dubbio gusto e dalle proprietà opache. La linea è stata estirpare il traffico privato dei residenti ma ad essere rimossi sono stati i residenti stessi come le statistiche ci raccontano e chi attraversa davvero ogni giorno la città sa che il traffico non è affatto diminuito, e chi avrà l’intuizione di alzare lo sguardo un po’ più in là del proprio volante si accorgerà che le strade del centro sono diventate delle sterminate scacchiere di blocchetti bianchi e neri ovvero gli ipertrofici van dei corrieri e NCC da 8 posti. A poco valgono gli strali contro l’overtourism: paginate di giornale, convegni, e dibattitti parlamentari se le politiche urbanistiche degli ultimi 40 anni, che tutti abbiamo plaudito come salvifiche, hanno preparato il terreno a questo sventramento demografico del centro costringendo residenti e non, a sentirsi sempre più estranei alla biografia della città che scrivevano ogni giorno semplicemente vivendo, anche irrispettosamente, i propri spazi vitali. L’insediamento di nuove famiglie è stato così disincentivato così come è stata sollecitata la fuoriuscita dei residenti dal centro storico – non si tratta solo dei meno abbienti, sedotti da offerte economiche importanti e dalla sana aspirazione a lasciare case fatiscenti, parliamo anche del ceto medio impossibilitato a vivere come una comunità senza socialità reale e senza più esercizi commerciali di prossimità. Una criminalizzazione dei residenti descritti come cavernicoli presuntuosi e usurpatori del bene comune, il tutto in nome del decoro e della salvaguardia dei beni culturali, del patrimonio nazionale. Ma non c’è profonda identità senza una corrente umana nutrita da permanenti abitudini, usi e abusi della zona abitata. Se la città diventa museo, le case, i palazzi gli appartamenti saranno necessariamente residenze per visitatori; non è una provocazione apocalittica, è una logica inevitabile, una conseguenza storica soprattutto in un paese in cui l’economia è basata sulla rendita e, come in un’economia da dopoguerra, l’unica via è diventare tutti affittacamere. Lo spauracchio della turistificazione delle città storiche è in realtà un mostro, un esperimento sfuggito di mano a chi aveva sognato le nostre città come oggetti di studio, intoccabili manufatti, bacheche ecologiche dove ostentare i propri buoni propositi. Fatti fuggire i cittadini i grandi fondi finanziari hanno trovato terreno fertile nella spartizione del patrimonio immobiliare cittadino. Il risultato è stato questo sproporzionato fondale non solo turistico ma anche commerciale; la città-opera d’arte tutelata, proibita, divinizzata, la città senza cittadini esibita come un set eternamente acceso per eventi. Roma come schizofrenico dispositivo che annienta sé stessa proprio nella indecente esposizione della sua storia come diceva già Joyce con parole ancora più crude di queste più di un secolo fa. Abbiamo così assistito all’irrispettoso sfruttamento e travisamento del formato “Estate Romana” che Renato Nicolini aveva ideato come rinascita collettiva dopo gli “anni di piombo” ma anche come un sistema organizzativo informale e volutamente approssimativo, una macchina celibe definita effimera, anche per non essere sempre efficace, una festa sociale dalla logistica spesso imprecisa che mai avrebbe voluto vedersi trasformare in un brand performante e produttivo per le città-aziende del futuro.
Walter Beniamin remix:
Ricostruire topograficamente la città, dieci, cento volte attraverso le gallerie e le porte, i cimiteri e i bordelli, le stazioni e le figure più segrete della città, quelle situate nelle sue parti più recondite. Delitti, sommosse, i nodi cruenti nella rete stradale, le alcove dell’amore e gli incendi. La città è uniforme solo in apparenza e perfino il suo nome assume suoni differenti nei diversi quartieri. E di fatto in questi casi i nomi delle strade sono come sostanze stupefacenti che rendono la nostra percezione più complessa e stratificata. In nessun luogo – se non nei sogni – il fenomeno del confine può essere esperito in forma così originaria come nelle città. La seduzione dei negozi, dei caffè, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada, di un lontano mucchio di foglie, del nome di una via.
Milano che proprio nei primi anni 2000 viveva una profonda crisi d’identità e d’immagine dopo Tangentopoli, ha tratto spunto diligentemente da questo modello di “rigenerazione urbana” senza accorgersi del futuro annichilimento culturale che l’attendeva. Proprio nel momento in cui Milano ha voluto fare Roma – la Roma post giubileo, quella dell’”Estate Romana” permanente, delle notti bianche, dei grandi concerti, degli eventi internazionali – ha commesso il suicidio perfetto! Milano è svanita proprio quando ha voluto essere costantemente seducente e frivola, mai più austera. Così, con la consueta efficienza nordica, la macchina spettacolare di Roma è stata rielaborata fino alle estreme conseguenze convertendo “salone del mobile” e “settimana della moda” ad uno stato della mente esteso fino al punto di non ritorno: l’Expo 2015 che ha definitivamente modificato il codice genetico della città trasformandola in una carnascialesca Dubai mediopadana. I residenti inebriati dal ritorno d’immagine, dal transitorio ritorno economico, dal sabba cosmopolita e incandescente a cui stavano tutti partecipando non si sono accorti della lenta autocombustione. Mentre i diritti civili venivano esibiti – cortina fumogena di un abilissimo marketing globale – i servizi civici destinati ai residenti venivano meno, assorbiti da una Milano vivibile solo per una ristrettissima categoria di “cittadini non residenti”, investitori d’immobili vuoti, abitanti senza volto e sempre di passaggio, talmente transitori da non stabilire mai un rapporto affettivo, effettivo con i luoghi. Un cittadino-expat sempre più facoltoso e sempre meno radicato così da essere totalmente acritico rispetto alle scelte progressive della città-show ripensata come vetrina per altri investitori immobiliari o fruitori di week-qualcosa. I “nativi milanesi”, come vengono definiti con sarcasmo dalla stessa amministrazione, così come le eterogenee comunità migranti, sono considerati relitti folclorici miseramente ancorati a un vivere complesso, retrogrado e molto poco redditizio per chi, dietro il passe-partout comunicativo della rigenerazione urbana, deve concludere la speculazione edilizia più importante degli ultimi 50 anni. Le parole d’ordine sono dunque: ottimizzare, semplificare, normare, astrarre i luoghi, slegarli da ogni nomenclatura sentimentale, oppure esasperarla/azzerandola per espellere tutte quelle diversità così poco spendibili sul mercato. Milano da sempre crocevia creativo del Paese, luogo di speranza per milioni di persone, fucina di talenti, terra di opportunità per studenti e lavoratori in cerca di riscatto non potrà più accogliere nessuno che non si possa permettere il festino mobile e persistente che è stato allestito. Gli outsider che l’hanno da sempre desiderata per crescere, emergere e trovare un’opportunità nel mondo delle arti come dell’imprenditoria sono già altrove. A Milano non si fa più impresa si celebra l’impresa. Così Milano ha smarrito sé stessa, ha disinnescato la sua metafisica austerità, sublime e perturbante e ha svenduto quella tristezza che Testori rivendicava: quella verità agra, sbattuta in faccia come una gag geniale e tragicomica di Cochi e Renato o un verso assurdo di Enzo Jannacci.
C’era un bel sole che scaldava gli orti, c’era un bel sole e asciugava i morti.
Roma e Milano, ma tutte le città come le abbiamo conosciute, per dirla con Debord, sono diventate un immenso accumulo di spettacoli e le immagini si sono staccate da ciascun aspetto della vita.
La città è così diventata zona d’intersezione delle peggiori pulsioni degli ultimi 100 anni di storia: istanze conservative, fascistoidi e poliziesche si sposano perfettamente allo sfruttamento capitalistico dello spazio pubblico, un mefistofelico matrimonio reso molto poco decifrabile perché rivestito da una retorica progressista inattaccabile a livello mediatico.
In questo terrifico gioco di specchi in cui Roma e Milano si sono perse e si sono riconosciute seppur per ragioni diversissime, esistono ancora inaspettati anticorpi, isole informali e istintivamente sediziose che possono garantire quella biodiversità sociale frammentata e disordinata necessaria alla sopravvivenza delle città. Roma nel suo bailamme dispotico, corroborata da tutti i cliché disfunzionali che ci sforziamo ogni giorno di decostruire o superare, a cominciare da quelli presenti nell’inchiesta degli anni ’60 con cui abbiamo aperto, genera invisibili trincee in ogni quartiere, in ogni periferia. La sua stessa conformazione geologica – Urbe fondata su sette colli ed espansa su centinaia di colline, vallate, dirupi, fiumiciattoli e marane – non presta il fianco a nessun ordinamento viario strategico affollando da secoli gli incubi di ogni urbanista. E se Roma fa resistenza a ogni tentativo di livellamento dal suolo e sottosuolo anche il suo profilo celeste, il suo ammiratissimo e romantico roofscape non è altro che un disorganico e millenario accumulo di spontanee prevaricazioni; cosa ne sarebbe di quelle straordinarie dronate-Netflix se papi, principi, popolani e palazzinari non avessero commesso degli azzardi, o meglio, non avessero edificato chiese, palazzi, palazzetti e palazzine in spregio a qualsiasi coerenza stilistica: gazebi, campanili, cupole, frammenti di statue, capitelli trafugati e innestati in verande, cornicioni, e poi poggioli, edicole sacre, logge, loggiati, loggette, insegne pubblicitarie, panni e bandiere, croci, madonne e girandole, altane, antenne, torri e torrette, cassoni e cessi sospesi, lavatoi e ancora cucine pensili, comignoli, pollai, piscinette, pisciatoi in un gioco al massacro di volumi irregolari, allargati e demoliti, ricostruiti e sovrapposti fino a creare quella sconnessa arbitraria, illecita magia di livelli e dislivelli che ci appaiono alla fine come una distesa di penzieri e palazzi, Gadda dixit. Roma insomma, dal basso della sua insubordinazione levantina, tira il fiato, alza la testa e sorride spregiudicata pensando a quanto di insensato e insolente si può fare per restare ancora vivi, plurali, per dirsi appunto Polis. Persino l’attuale comunicazione social dei sindaci di Roma e Milano segna uno spartiacque profondissimo. Se Roberto Gualtieri, alla guida della migliore giunta capitolina degli ultimi 20 anni, ha fatto inizialmente tutti sorridere con la sua martellante campagna di comunicazione in cui appare come Mr Wolf a zonzo per la città a risolvere problemi, spiegando le soluzioni e investendo in progetti concreti di cui lui non potrà prendersi meriti perché tutti a lunghissimo termine, Beppe Sala gioca la sua partita tutta su un’immagine performante che, sforzandosi di sembrare poco seriosa, ottiene il risultato opposto: un video-mausoleo di se stesso in cui parla di periferie solo con abitanti che gli somigliano antropologicamente in modo assurdo. Se nei video del Comune di Roma Gualtieri, con inaspettata spudoratezza e autoironia, emerge come un dio norreno tra le nebbie del catrame fuso dei cantieri stradali notturni sulla Casilina, Sala si aggira tra le sue periferie-prodotto cercando di raccontarle esattamente come un agente Tecnocasa cerca di fare con mansarde posticce spacciate per attici di lusso costosissimi. Se Sala punta tutto sulle fin troppo celebrate ragazze di Porta Venezia Gualtieri suona la chitarra a San Basilio con Ultimo, l’artista più odiato dalla stampa italiana. Se Sala pensa solo di piacere alla gente che piace tradendo un atteggiamento brianzolo-bocconiano e infondo provincialissimo, Gualtieri sublima ogni demagogia grazie ad una sincera bonarietà romana che s’intuisce subito essere nata tra scoutismo e sezioni FGCI, tra centro e quartieri popolari. Se Sala minaccia querele a Rovazzi solo perché ha inscenato un furto in un video che, forse, chissà, si suppone sia stato girato a Milano danneggiandone l’immagine elvetica, Gualtieri sorride solo al pensiero di arginare ironie e invettive sulla sua città, anzi non teme satira, gioca d’anticipo e usa l’identitario romanesco quando lancia Ce-stò la campagna sui nuovi 18.000 cestini della spazzatura: una campagna talmente naïve da fare il giro e ambire ad essere un caso di comunicazione urbana.
Roma quindi è sempre fuori moda, si chiama fuori, soprattutto fuori dal Tempo che sospende così tanto da non diventare mai moderna ma costantemente contemporanea.
Il centro storico è perduto, ma al di fuori dei varchi elettronici, sotto l’asfalto delle strade si sente una spiaggia vitalissima che si apre come una bocca o una ferita – diceva Camus pensando alla sua Algeri meridiana. Circoli, circoletti, centri sociali aperti e di potere occulto, cluster contemporanei, terzo settore, orti urbani, mercati rionali e così poco scandinavi, oratori sperimentali, rinascimenti accelerazionisti, derive anarco-conservatrici e culti pagano-libertari, occupazioni illegali, riviste indipendenti, sette, ghetti e ghetti aperti, ministeri obliqui, mondanità lente e inossidabili: tutte giungle urbane lontane e mal collegate. Roma come una mappa sognata, come bussola refrattaria e imprecisa, è perfetta per superare queste tediose temperie digitali. Roma ti costringe così ad un estenuante corpo a corpo: amplesso felice o rissa cruenta che sia, lancia la sfida a sentirsi parte dell’organismo urbano fino alle sue viscere. Città di temerari e non d’indolenti come si dice, dove in ogni ora buttata c’è un labirinto di possibilità, in ogni incontro mancato è inevitabile una svolta, in ogni cantiere aperto c’è una soglia consacrata, in ogni suo scorcio è rintracciabile una porzione piccolissima e meschina del mondo. Ed è per questo che Roma è sempre così provinciale e così prepotente. Universale.