Una testa suonata e la sua montagna incantata

A chi non è mai capitato di incontrare un matto sulla metro? “Una testa suonata”, come ha sottolineato un uomo con i capelli lunghi e grigiastri davanti a me. Ma le teste suonate, sono convinto, abitano la nostra stessa scala graduata. Non sono qualitativamente diversi da noi, solo quantitativamente. Non è un fatto da poco; anzi, non nascondo di aver fantasticato per l’ennesima volta riguardo a cosa si provi ad occupare il gradino più alto (o basso) di questa scala.
Ogni volta che mi cimento in quest’esperimento immaginativo mi incupisco. Al suo grado peggiore, la follia, ipotizzo, è uno snodo silenzioso sull’Indianapolis, una passeggiata al lago salato dello Utah. È l’esasperazione a cui si arriva quando si crede che il mondo sia il rovescio del cuore, che di amore non se ne sappia un bel niente, che questo non sia altro che il muro di parole eretto tra due che non sono bravi ad annusarsi come bestie. La pazzia è l’imperatore Marco Aurelio che scrive un libro intero di auto-psicanalisi – i Pensieri – all’incrocio tra sensi di colpa e purezza ideologica. Dove l’inchiostro bagna pagine che inneggiano all’uguaglianza tra umani mentre le sue truppe macellano brutalmente i Quadi.

Ma i pazzi non sono spacciati finché sanno raccontarci una storia. Infatti, il protagonista di questa singolare rassegna è un uomo striminzito e selvatico ma dall’immaginazione elefantiaca. La sua energia è magnetica. Tanto che il carnaio umano del vagone si fa silenzioso al suo cospetto. Dal mio canto, non posso far altro che riporre il libro che sto leggendo nello zaino per ascoltare le sue pubbliche farneticazioni.
Questa testa suonata spiega che i bambini vengono rapiti a Detroit dalle cicogne – “lì son tutti c******i”, precisa – per venir (de)portati in Venezuela. “Terra pericolosa quella”, eccome. Un luogo a cui i bambini sopravvivono soltanto grazie ad un’ardua selezione naturale, “i migliori verranno a Roma e avranno una storia da raccontare”. Perché proprio a Roma? Mi sono chiesto. Non sono stati forniti ulteriori chiarimenti in merito. Forse la spiegazione è semplice: il signore nella Capitale ci abita e il racconto deve pur concludersi a casa sua.
Ma il traballare della metro mi solletica le sinapsi. E se questa storia strampalata avesse un qualche valore allegorico? Ecco, la mia ipotesi è che quell’uomo dall’indole istrionica veda Roma al mio stesso modo: un caravanserraglio di canta-storie. Bardi, poetanti e ciarlatani che si annidano nel trasporto pubblico, negli ospizi, negli ospedali, negli anfratti delle strade, negli uffici pubblici e nelle officine. Roma è la città delle narrazioni sovrapposte. È un atollo ricolmo di storie ed eroi in grado di scandire spazi che si scontrano gli uni con gli altri. Opposizioni destinate a cancellarsi, a compensarsi, a neutralizzarsi o a purificarsi.
Roma è il Venezuela – con le sue cicogne e suoi eroi-bambini – che viene a visitarmi nel vagone della metro. È un giustapporsi di più spazi in un luogo reale che normalmente sarebbero incompatibili. La Capitale è una montagna incantata, simile all’omonimo romanzo di Thomas Mann. Forse perché sulla sua cima, stando al racconto, vi è un sanatorio per malati e “teste suonate”; o forse, perché quest’ultimo è un luogo fuori dal tempo, paralizzato e pur sempre pregno di possibilità. Un mondo al crocevia tra il razionalismo di Settembrini, il violento nichilismo di Naphta e l’amore prorompente per la vita di Peeperkorn.

Roma è la Via Merulana dipinta da Gadda: uno spaccato della Capitale brulicante, pastoso e in certa misura odioso. Eppure, la nota via capitolina assume nel romanzo i tratti di quella che Foucault chiama “eterotopia”, un luogo che assomma altri luoghi. Un’arteria vitale della città in cui è vivo il respiro dei fantasmi di un glorioso passato imperiale e il fiato caldo dei corpi abbrutiti dalla miseria della borgata. Roma vive ancora questa tensione irrisolta, sofferta. Quella di essere una dea malinconica, dalla natura sonnacchiosa, oleografica, sporca, oscillante tra mito del passato, senso immanente di grandezza metafisica e arroganza volgare.
Roma è una città “matta”, perché nessuno di noi può capirla del tutto, proprio come il racconto convulso della testa suonata sul vagone della metro. Perché è una città le cui contraddizioni inquietano. Probabilmente perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché destano anzi tempo la sintassi e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa tenere insieme le parole e le cose.

Lo strambo narratore ci ha ringraziato dell’attenzione, ci ha mandato tutti sonoramente a quel paese e, infine, canticchiando un motivetto, ha diretto i suoi passi verso i vagoni più a fondo. Sono rimasto incantato per qualche istante ad osservare quelle movenze sgraziate e avvitate. Chinando lo sguardo, ho rinserrato le labbra per nascondere un sorriso istintivo. Quest’incontro mi ha decisamente lasciato qualcosa: la consapevolezza che Roma la detesto, eppure mi ci sono affezionato un po’ di più.