Trivelle e incidenti, dalla Paguro alla Haven il pericolo è dietro l’angolo
Si avvicina il rien ne va plus per le trivelle; tra poco più di 15 giorni i cittadini saranno chiamati ad esprimere il proprio parere sancendo in via definitiva se proseguire con nuove esplorazioni e perforazioni o se vietare tali attività entro le 12 miglia dalla costa. Abbiamo già speso parole sul tema ma poco si è detto – e si dice, alimentando un assordante quanto inquietante silenzio – riguardo gli incidenti avvenuti in passato nei nostri mari a causa del trasporto/estrazione dei combustibili fossili.
Trivelle: l’incidente della piattaforma Paguro
Nel 1965 venne posizionata a circa 11 miglia al largo di Ravenna una piattaforma self-elevating (ordinata dall’Agip e prodotta su licenza statunitense) per estrarre metano dal fondo dell’Adriatico. La trivellazione raggiunse il giacimento individuato in precedenza dagli esperti ma durante le operazioni ne fu intaccato un altro (non previsto) contenente metano ad alta pressione. I sistemi di sicurezza non riuscirono a contenere la fuoriuscita improvvisa di gas, la quale provocò un incendio che distrusse la Paguro nel giro di poche ore. Delle 38 persone dell’equipaggio, 3 morirono dopo essersi gettate in mare per scampare, come gli altri, alle fiamme divampate sulla piattaforma: si tratta del geologo Arturo Biagini, dell’elettricista Bernardo Gervasoni e dell’operaio Pietro Perri. L’esplosione creò un cratere profondo 33 metri e una colonna che raggiungeva i 30 metri d’altezza sulla superficie del mare. L’eruzione venne domata solo 3 mesi più tardi, attraverso l’intasamento – tramite iniezione di cemento – del foro di uscita del gas. Col passare degli anni la Natura è riuscita a riassorbire il colpo inferto; il relitto della piattaforma e il cratere sono divenuti riparo per le creature marine e meta ambita dai subacquei. Tuttavia, oltre al dolore per la perdita di vite umane, occorre tener presente alcuni aspetti significativi, il primo: nonostante approfonditi studi a monte, si è comunque verificato un grave incidente. Secondo: le perforazioni, gli sgretolamenti, la dispersione di metano in acqua e in aria hanno contribuito all’inquinamento. Terzo: il metano presente nel giacimento non è stato estratto, andando per giunta perduto. Quarto: sono serviti mesi all’uomo per tappare la falla e anni alla Natura per ricostituire l’ambiente marino.
La Haven e il petrolio in fondo al mare
Votare sì, lanciando in tal modo un segnale forte che in sé contiene anche un ‘no’ – in prospettiva – ai combustibili fossili, potrebbe innescare un circolo virtuoso utile a ridurre i rischi e i danni causati dalle petroliere e dalle navi che trasportano gas liquido: bombe marine galleggianti capaci – in caso d’incidente – di compromettere intere aree, con ovvie conseguenze anche per la salute umana. A questo proposito ricordiamo il naufragio della petroliera Amoco Milford Haven, avvenuto l’11 aprile 1991 nel golfo di Genova: l’incendio che si sviluppò a bordo consumò buona parte dell’ingente quantitativo di combustibile trasportato, provocando un’incendio che si protrasse alcuni giorni che portò all’affondamento della nave e alla fuoriuscita di migliaia di tonnellate di petrolio il quale, ancora oggi, è presente sul fondo del mare a testimonianza del danno arrecato. Secondo quanto riportato sul sito del comune di Arenzano, di fronte al quale avvenne l’incidente, «dalla prima esplosione al momento dell’affondamento si stima che siano bruciate almeno 90 mila tonnellate di petrolio. Le ottime condizioni meteo-marine evitarono che le colonne di fumo (alte fino a 300 m) raggiungessero le nostre coste». Sebbene il caso abbia voluto che i fumi nocivi non arrivassero sulla terraferma, quella della Haven rimane una delle tragedie più importanti nel Mediterraneo e dovrebbe fungere da monito a coloro che credono sia giusto continuare a investire su queste forme d’approvvigionamento energetico.
Lo studio europeo sulle trivelle: 1300 incidenti solo in Italia
I due casi presi in esame rappresentano solo una piccola percentuale degli incidenti avvenuti nei nostri mari; il centro studi del Parlamento europeo ha pubblicato nel 2013 uno studio denominato “L’impatto degli incidenti delle trivellazioni di olio e gas sulla pesca europea” , in cui si analizzano le conseguenze delle trivellazioni marine in Europa. Secondo i dati raccolti, nel vecchio continente sono avvenuti 9700 incidenti negli ultimi 20 anni, di cui ben 1300 solo in Italia. Come precisato dal lavoro d’indagine, esistono diversi tipi di avarie che possono accadere in una piattaforma: una perdita, un’esplosione, un collasso parziale o totale della struttura, un danno alla cisterna che trasporta il greggio, uno sversamento di prodotti chimici utilizzati nelle operazioni di perforazione. A questi elementi occorre aggiungere anche fattori quali il rumore, lo sgretolamento delle rocce sul fondale e le emissioni atmosferiche. Insomma, l’incidente è davvero dietro l’angolo e anche il mondo ecclesiale ha voluto dire la sua a riguardo; nei giorni scorsi l’arcivescovo di Pescara, monsignor Tommaso Valentinetti è intervenuto sulla questione trivelle manifestando preoccupazione «perchè nonostante tutte le rassicurazioni, per noi questo costituisce un problema. Il mare Adriatico è molto piccolo, non è enorme; nessuno può escludere possa succedere un incidente. Occorre superare la logica della sola indipendenza dagli idrocarburi». Il pensiero di Valentinetti si aggiunge a quello dei consigli regionali (molti dei quali a guida Pd) che già si sono espressi a favore del «sì» al referendum.
E’ bene ricordare infine che la produzione nazionale rappresenta circa il 7% del consumo totale di petrolio, il rimanente 93% è importato dall’estero. Il petrolio made in Italy rappresenta solo l’1% della produzione mondiale e, nella classifica dei produttori, il nostro Paese è solo quarantanovesimo. Di scarso rilievo anche l’estrazione gassifera, che si aggira intorno ai 15miliardi di metri cubi.
L’insieme degli elementi raccolti nell’articolo può dare maggiore corpo alle ragioni dei sostenitori del «sì» e mi auguro che le stesse fungano anche da stimolo per coloro che sono orientati verso l’astensione. Chi propende per il no – posizione che non condivido – potrebbe domandarsi se davvero vale la pena continuare le esplorazioni e trivellazioni anziché puntare all’emancipazione dagli idrocarburi e all’utilizzo di fonti rinnovabili.