Come scongiurare il divario intergenerazionale all’epoca del Covid-19
Nel corso dell’ultimo ventennio è diventata prassi comune a molte testate giornalistiche, cartacee e online, di parafrasare il titolo di un classico della letteratura americana per poter affermare che il nostro Non è un paese per giovani.
Ma tralasciando per un momento la monumentale opera di Cormac McCarthy ed ogni sua possibile declinazione del titolo, ciò che appariva evidente già prima dell’attuale pandemia da Covid-19 è che, dati alla mano, in Italia il divario economico tra le varie fasce anagrafiche è un problema su cui è necessario intervenire con determinazione.
È di pochi mesi fa l’ultimo rapporto dell’Istituto Giuseppe Toniolo che difatti pone l’attenzione sull’impatto che potrebbe avere l’emergenza sanitaria sul mondo dei giovani italiani, un universo sempre più costellato di neet (coloro che restano a casa senza cercare lavoro o intraprendere altri percorsi formativi) e sempre più corroso dalla disoccupazione giovanile (nel 2018 si era arrivati al +28,2% nella fascia d’età 18-29 anni).
Tra gli aspetti da tenere in considerazione in questo tipo di scenario è poi la tutt’altro che semplice situazione del passaggio generazionale, e cioè tutta quella serie di attività che un’impresa deve intraprendere per garantire continuità nel trasferimento di know-how di padre in figlio.
Molte attività infatti nacquero durante gli anni del boom economico ed ora, oltre alla situazione emergenziale, si ritrovano a dover affrontare anche un fisiologico cambio di prospettive per il proprio business.
Un passaggio di certo delicato, che si rende possibile solamente se c’è la volontà di investire nel futuro e negli stakeholder di domani.
Ne abbiamo parlato con Gaetano De Vito, presidente di Assoholding, l’associazione delle holding italiane che da diverso tempo si impegna a favorire il ricambio tra la generazione presente e quella futura nella guida e gestione delle tante, piccole e medie imprese che definiscono il tessuto produttivo del nostro Paese.
Professor De Vito, in Italia siamo ormai da anni di fronte ad una situazione abbastanza delicata, ovvero la necessità, da parte di molte realtà imprenditoriali, di impegnarsi nel passaggio generazionale e nel conseguente transito di conoscenze ed expertise di generazione in generazione. Pensa che l’attuale emergenza sanitaria possa in qualche modo interferire con un processo già di per sé così delicato?
Da più parti sta emergendo la convinzione secondo cui il lockdown generalizzato imporrebbe ai giovani la tutela di un rischio corso essenzialmente solo dagli anziani.
Se questo è vero – come è vero – occorrerebbe da subito domandarsi se è possibile separare fisicamente e socialmente questi ultimi dai giovani, che potrebbero così proseguire la loro normale attività di affetti, relazioni nonché quella legata alla scuola e al lavoro.
Non sembrerebbe che ci siano studi approfonditi che possano confermare la possibilità di separare soggetti a rischio da quelli a meno rischio se non in modo occasionale, temporaneo e non scientifico. Inoltre da più parti si ritiene che questa separazione oltre ad essere practically impossible è anche highly unethical ovvero praticamente impossibile e altamente immorale.
Di là da queste osservazioni, da cui prescindo e non commento in quanto non competente, mi preme osservare come durante questa pandemia l’interferenza generazionale sia da osservarsi con una certa attenzione, posto che il trasferimento di conoscenze, di esperienze e soprattutto di patrimoni anche non monetari, attraverso un patto tra anziani garantiti e giovani senza garanzie, sia diventato di stringente attualità.
A sentire le nuove generazioni, si starebbe chiedendo loro l’ennesima rinuncia: se fino a qualche anno fa i giovani recriminavano ‘ai grandi’ di averli privati del futuro — o comunque di averlo reso molto più accidentato e incerto — adesso si starebbe imponendo loro di rinunciare anche al presente. Cosa ne pensa?
Nel paragonare i cambi generazionali a onde in successione, che quindi arrivano con una certa scansione, va senz’altro preso atto che alcuni grandi eventi come guerre o pandemie alterano in maniera irreversibile la distanza tra una cresta e l’altra dell’onda.
Se per questioni morali dobbiamo comunque ritenere che gli anziani debbano essere messi nella condizione di poter essere tutelati da rischi enormi e che quindi i giovani debbano sacrificarsi anche per il loro bene, non ci si dovrebbe però limitare a ringraziare l’alta moralità di chi decide questi percorsi ma anche fare quanto possibile per dare ai giovani la possibilità di riprendersi il futuro attraverso compensazioni che dovrebbero far riflettere.
Sono dell’idea che la migliore strada sia quella di accelerare il trasferimento generazionale per assicurare la continuità verso i giovani che stanno rinunciando a un pezzo di futuro.
Senza alcun egoismo, ma con la convinzione di continuare a tutelare la vecchia generazione, raccogliendo anche momenti di alta gratificazione proprio per accingersi a passare il testimone. Vuoi che a passare sia l’azienda, vuoi che siano i risparmi, vuoi, infine, che sia lo Stato ad offrire larghe prospettive ai giovani che studiano, lavorano o ricercano e innovano.
Quali sarebbero, secondo lei, i benefici scaturiti se si decidesse di investire definitivamente e con continuità nel passaggio generazionale? E inoltre, quale dovrebbero essere le tappe essenziali di un percorso che ha, tra l’altro, l’obiettivo di ridurre il divario intergenerazionale?
Innanzi tutto è necessario che la fiducia nei giovani faccia un passo in avanti, magari anche prendendo alcuni rischi. Che questa fiducia, attraverso l’attività degli anziani che passano il testimone a esempio della propria impresa, debba comunque essere sottoposta a controllo, per poterla anche revocare nei casi più gravi di dispersione di patrimoni affidati anzitempo.
In seconda battuta, guardando la questione dal punto di vista di un ipotetico imprenditore, sarebbe necessario che i risparmi, tenuti fermi con l’intento di mantenere patrimoni immobili che non rendono nulla in termini di crescita di PIL, trovino il modo di essere impiegati in attività di innovazione, ricerca e aumento della produttività nel nostro Paese, nonché impiegati in attività filantropiche.
Non da ultimo, è fondamentale che i governi inizino a investire con la massima attenzione in risorse dedicate ai giovani. Premiare start up e investimenti in ricerca e sviluppo è sicuramente nelle corde degli ultimi esecutivi ma, se guardiamo bene la conduzione e l’indirizzo delle agevolazioni, essa passa sempre per strumenti difficilmente raggiungibili dai giovani, senza il filtro di chi possiede già cospicui patrimoni.
Dalle sue parole, professore, sembrerebbe di capire che è giunto il momento di rimettersi al paro con gli altri paesi europei riprendendo ad investire in attività di ricerca e sviluppo…
Non entro nel merito di come attuare questo percorso. Tuttavia, puntare con continuità nelle filiere costituite da imprese di eccellenza, incubatori, università e start up innovative ,costituirebbe senz’altro un tangibile passo in avanti. Ma realizzabile solamente se i soldi sono certi, di importo congruo e acquisibili senza filtri di sorta da attribuire direttamente alla filiera tramite crediti d’imposta.
Oggi purtroppo le sovvenzioni dirette alla ricerca e all’innovazione sono ridotte al lumicino. Inoltre, bisogna fare i conti con l’interpretazione di manuali (di “Oslo” e di “Frascati”) che mettono gli operatori nell’incertezza più totale, fino a rinunciare a questi benefici tenuto conto degli ingenti rischi di sanzioni non solo monetarie ma anche penali.