Srebrenica: un genocidio nel cuore dell’Europa

Trent’anni fa, nel cuore dell’Europa, si consumava uno dei capitoli più oscuri della storia contemporanea: il genocidio di Srebrenica. Nel luglio 1995, migliaia di uomini e ragazzi bosniaci musulmani persero la vita in quello che rimane il più grave crimine di guerra europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. A tre decenni di distanza, la memoria di quel massacro resta viva, dolorosa e necessaria, un monito indelebile contro l’odio e l’indifferenza.
Contesto storico
Per comprendere la tragedia di Srebrenica è necessario tornare all’inizio degli anni ’90, quando la Jugoslavia, Stato multietnico, cominciò a disgregarsi. Con il crollo del regime federale nel 1991, esplosero tensioni represse tra le diverse comunità nazionali, sfociando in conflitti armati in molte delle sue ex repubbliche. In Bosnia ed Erzegovina, la convivenza tra serbi bosniaci, croati bosniaci e bosgnacchi (musulmani bosniaci) si spezzò, dando origine a una guerra civile sanguinosa, segnata da episodi di pulizia etnica, deportazioni e atrocità di massa.
In questo contesto, Srebrenica, cittadina della Bosnia orientale, assunse un ruolo simbolico. Nel 1993 venne dichiarata “zona protetta” dalle Nazioni Unite, con l’obiettivo di offrire un rifugio sicuro alla popolazione civile in fuga. Migliaia di bosgnacchi vi si rifugiarono, sperando nella protezione del contingente di caschi blu olandesi stanziato in città. Tuttavia, quella speranza si rivelò ben presto infondata. L’11 luglio 1995, le forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić conquistarono Srebrenica senza incontrare una vera resistenza. I soldati ONU, in numero ridotto e privi di un mandato operativo efficace, non furono in grado di opporsi né di proteggere i civili.
L’orrore del genocidio
Ciò che seguì fu una delle pagine più crudeli della guerra. In pochi giorni, oltre 8.000 uomini e ragazzi bosniaci musulmani, dai 12 ai 77 anni, furono separati con la forza dalle loro famiglie. La separazione non fu casuale: gli uomini furono caricati su camion o portati nei boschi, dove vennero sistematicamente uccisi. I loro corpi furono sepolti in fosse comuni, spesso scavate in fretta, nel tentativo di cancellare ogni traccia del crimine. Le donne, i bambini e gli anziani furono deportati con la forza verso i territori sotto controllo bosgnacco; molte donne, prima della partenza, furono vittime di violenze e abusi.
Responsabilità e processi
La comunità internazionale impiegò anni per fare giustizia, ma alla fine, le responsabilità vennero accertate. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), istituito dalle Nazioni Unite, riconobbe ufficialmente che i fatti avvenuti a Srebrenica costituivano genocidio. Le indagini e i processi si concentrarono sui principali leader politici e militari responsabili.
Ratko Mladić, il comandante delle truppe serbo-bosniache, fu arrestato nel 2011, dopo 16 anni di latitanza. Condannato all’ergastolo, fu ritenuto colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità. Lo stesso destino toccò a Radovan Karadžić, leader politico dei serbi di Bosnia, anch’egli condannato all’ergastolo.
Nel frattempo, alcune ammissioni di colpa arrivarono anche da parte delle istituzioni locali. Nel 2004, il governo della Repubblica Srpska — l’entità serba della Bosnia ed Erzegovina — riconobbe il massacro e porse le proprie scuse e nel 2010, il parlamento serbo approvò una risoluzione di condanna, pur evitando di definire l’evento con il termine “genocidio”, scelta che suscitò molte polemiche.
L’eredità della memoria
Il massacro di Srebrenica ha lasciato ferite profonde, ancora aperte. Ogni anno, l’11 luglio, migliaia di persone si radunano presso il memoriale di Potočari, dove si trovava l’ex base ONU. In quel luogo di dolore e memoria, vengono sepolti i resti delle vittime identificati nel corso dell’anno. Il processo di esumazione e riconoscimento è ancora in corso, grazie alle analisi del DNA che permettono di restituire un nome e una tomba a centinaia di dispersi. Molte famiglie, però, attendono ancora con angoscia di poter dare una degna sepoltura ai propri cari.
Oggi, a distanza di trent’anni, il genocidio di Srebrenica rappresenta un monito sulla fragilità della pace nelle società multietniche e sui pericoli dell’estremismo nazionalista. Ci ricorda l’importanza di vigilare costantemente contro l’odio etnico e religioso e la necessità di meccanismi internazionali più efficaci per prevenire simili tragedie.