Backgammon: un gioco millenario che sfida il destino e il tempo

Un duello di strategia e fortuna che si consuma su di una tavola divisa in triangoli: si tratta del backgammon, uno dei giochi più antichi della storia dell’umanità e, al contempo, uno dei più difficili da giocare.
Due giocatori che si fronteggiano, 15 pedine a testa, 2 dadi e 24 triangoli entro i quali muoversi costituiscono un kit di regole ed equipaggiamenti all’apparenza semplici, ma intrisi da una profondità tattica che ha attraversato la storia, conquistando popoli, imperatori, filosofi e persino artisti: l’obiettivo apparentemente banale di liberare per primi tutte le proprie pedine dal campo di gioco si inserisce in un complesso teorema dove ogni mossa è un calcolo, un rischio, un piccolo azzardo; bisogna avanzare ma anche ostacolare l’avversario, difendersi ma anche cogliere il momento giusto per colpire.
Il gioco, che oggi molti di noi hanno visto solo nella versione digitale sul proprio computer e mai nella sua versione fisica, in realtà affonda le sue radici qualche millennio addietro nella storia: secondo i più “pessimisti” l’origine del backgammon sarebbe riscontrabile nel Gioco reale di Ur, scoperto nella tomba di un Re sumero nell’omonima città della Mesopotamia, dove oggi si trova l’Iraq; tuttavia alcune scoperte più recenti spingerebbero indietro di almeno due secoli le lancette dell’orologio che misura la nascita del gioco, grazie al ritrovamento nella città iraniana di Shahr di una tavola simile a quella divisa in triangoli che tutti conosciamo.
La diffusione del backgammon e la sua capacità di coinvolgere le personalità più disparate nel corso della sua lunghissima storia è strabiliante: il gioco che ancora oggi appassiona i nostri contemporanei riesce a connetterci con le illustri menti che ci hanno preceduto trovandone diletto nel giocarlo; Platone lo menziona, Sofocle sostiene che Palamede, eroe dell’assedio di Troia, usasse il backgammon per passare il tempo nei lunghi anni della guerra, e anche lo stesso Omero – o chi per lui – ne fa cenno nell’Odissea. A Roma il gioco divenne noto come “ludus duodecim scriptorum”, poi come “alea” e infine come “tabula”, con una diffusione tanto capillare per cui anche l’imperatore Claudio ne sarebbe stato ossessionato, al punto tale che, secondo quanto racconta Svetonio, avrebbe fatto modificare dei carri per poterci giocare anche in viaggio.
Nel corso del Medioevo il gioco fu osteggiato dalla Chiesa nell’ambito di una più ampia lotta al gioco d’azzardo, ma la sua popolarità non ne fu intaccata, anzi, poco dopo, intorno alla fine del 1500, Caravaggio addirittura lo rese arte, dipingendolo ne “I bari”, e testimoniando così come la tavola da gioco fosse parte integrante della vita sociale, anche se solo nel 1743 Edmond Hoyle ne fissò per la prima volta le regole ufficiali in un trattato scritto.
Ma cos’ha reso possibile la perpetuazione di un gioco da tavolo? Perché delle pedine che si muovono ritmate da dadi hanno saputo affascinare tutto il mondo nel corso di cinque millenni? Alcuni studiosi leggono il backgammon come una metafora della vita: il bianco e il nero delle pedine simboleggerebbero il giorno e la notte, i punti i mesi dell’anno, le 30 pedine i giorni del mese, e i dadi – come il destino – intervengono su quest’equilibrio cosmico in modo imprevedibile. La sorte, accompagnata da ingegno, strategia e coraggio nel rischio, rende la partita una metafora della vita, dove non si vince solo per fortuna, ma anche per la capacità di sfruttare al meglio ciò che si ha.
Il backgammon, dunque, non è solo un passatempo: è un rituale, una sfida millenaria tra l’uomo e la sorte, un gioco eterno, che ancora oggi riesce ad appassionare, insegnare, sorprendere.