L’Algeria e le avvisaglie indocinesi

La collana “La maledizione dei centurioni”, collaborazione tra il Centro Studi Primo Articolo ed edizioni Passaggio al bosco si compone di sei volumi dedicati alla storia della guerra d’Algeria. Gianfranco Peroncini, autore dei volumi, ci racconterà questo conflitto attraverso una serie di interviste ma prima di arrivare al conflitto algerino è obbligatorio un passaggio in Indocina e sarà lo stesso Gianfranco a spiegarci il perché.
Prima tappa: Indocina. Perché è importante partire storicamente da lì e non dall’Algeria?
Quando si esaminano con attenzione gli avvenimenti del conflitto algerino che si sviluppò tra il 1954 e il 1962, si comprende come la guerra che l’esercito francese si trovò a combattere in Indocina dal 1946 al 1954 ne fu il logico e storico prologo.
Lungo quelle piste e in quello risaie del Sud-est asiatico si scoprono infatti in scenari insoliti, aspri, crudeli, distanti anni luce da un’Europa in cerca di boom economico, di benessere e di oblio, radici che affondano nei cuori e nelle esperienze dei militari francesi che vi avevano combattuto contraendo una terribile malattia, il mal jaune, la “febbre gialla” come venne allora definito, con chiaro intento spregiativo, quel vasto fermento che avrebbe spinto il Corps expéditionnaire français en Extrême-Orient a interrogarsi sulle ragioni che lo avevano portato a battersi, a migliaia di chilometri dal territorio metropolitano, in un contesto di guerre che gli stati maggiori pretendevano “coloniali” ma che in realtà erano “rivoluzionarie”.
È nell’esperienza vissuta e sofferta nella penisola indocinese che sono da rintracciare le prime avvisaglie e le prime prese di posizione sociali e politiche compiute dall’esercito francese alla luce di quel nesso indissolubile che lega, negli schemi di queste guerre “non ortodosse”, l’elemento politico a quello militare.
Per l’esercito francese, dunque, la guerra d’Algeria era iniziata il 7 maggio 1954 con la caduta dell’ultima trincea di resistenza nella piazzaforte sventrata e spettrale di Dien Bien Phu.
Nel libro emerge un malcontento delle truppe sul campo, verso la madrepatria Francia, quanto pesò questo particolare sul conflitto?
Mentre quella drammatica evoluzione si andava lentamente e dolorosamente maturando nel Sud-est asiatico, in Francia erano pochi a curarsi delle vicende degli uomini mandati laggiù a combattere una guerra durissima e spietata. L’opinione pubblica trascurava completamente l’avventura del suo esercito, dei suoi “mercenari”, militari di carriera e volontari, che si battevano in nome di un Occidente impegnato nella caccia al benessere e al consumismo, dopo essersi lasciato alle spalle le macerie, fisiche e morali, dell’immane conflitto mondiale appena concluso.
Non era la Francia che combatteva una guerra nelle boscaglie e nelle giungle d’Indocina, si trattava di un conflitto localizzato, a bassa intensità, che riguardava solo alcuni francesi in uniforme sdrucita.
Per la maggioranza dell’opinione pubblica, nel migliore dei casi, erano solo degli avventurieri straccioni, un corpo separato e avulso dal tessuto connettivo e sociale della République. Così le iniziative contro la sale guerre, la “sporca guerra”, si andavano intensificando, grazie soprattutto all’impegno dei comunisti francesi e delle loro organizzazioni di sostegno.
Alla guerra di popolo dei Viet, Parigi rispondeva con una guerra impopolare.
Ripiegandosi su una dolorosa e amarissima introflessione, l’esercito forgiò al fuoco crudele della guerra d’Indocina nello specchio dell’indifferenza della metropoli un formidabile sentimento di appartenenza, d’identità alternativa e di fedeltà ai propri caduti – francesi di nascita e francesi par le sang versé, come i legionari e le truppe ausiliarie indigene – che non sarebbe venuto meno con il trascorrere degli anni.
Che denunciava purtroppo, una frattura sempre più profonda tra i militari e la nazione.
La guerra d’Indocina segna così per l’esercito, e indirettamente per la nazione francese, il punto di partenza di una rivoluzione, una rivoluzione compiuta in un silenzio quasi totale. L’esperienza indocinese è stata l’esperienza di tutto l’esercito regolare, in particolare di tutti gli ufficiali e sottufficiali tra i venti e i quarantacinque anni.
Si viene già delineando la frattura che separerà, dopo il 1954, il piccolo mondo degli ufficiali generali che non hanno mai vissuto la guerra d’Indocina in tutta la sua intensità e la maggioranza dei quadri per cui essa ha costituito la più grande esperienza militare e umana.
L’esercito francese in Indocina cominciò così a maturare un sordo risentimento contro le istituzioni civili e militari che li avevano spediti a combattere laggiù per difendere i vantaggi di pochi sfruttatori.
L’esercito, com’è stato scritto, diventa rivoluzionario e si tinge di anticapitalismo. Nasce così il movimento che, in Algeria, sboccherà sull’integrazione.
Ci descrivi nel libro l’umiliazione subita dalle truppe francesi da parte dei Viet dopo la battaglia di Dien Bien Phu. Venne chiesto al tenente colonnello Bigeard di recitare una scena dove il francese uscendo da un bunker doveva alzare le mani, la risposta fu: “piuttosto mi faccio fucilare”. Sei autore di saggi storici…ti viene in mente una scena simile in altri conflitti?
Mi pare il riflesso d’onore e di sacrificio di ogni guerriero, autenticamente vocato al mestiere delle armi.
In quanto tale, è un’immagine, un topos, condiviso in ogni epoca, al di là di differenze etniche, culturali, ideologiche o religiose da qualsiasi comunità guerriera che si senta chiamata a quel particolare tipo di missione di servizio e di sacrificio.
Rimanendo su quella precisa battaglia (Dien Bien Phu), perché vi fu tanto clamore in Francia all’esito della sconfitta?
Erano le 10.30, ora di Parigi, del 7 maggio 1956 quando la bandiera rossa della vittoria viet-minh fu issata sulla casamatta sventrata del comando francese di Dien Bien Phu. La notizia arrivò al governo francese intorno a mezzogiorno. Alle 16.45, il primo ministro Joseph Laniel salì alla tribuna, terreo in volto, vestito di nero. Le notizie del disastro avevano già raggiunto il territorio francese e l’emiciclo era gremito di deputati.
Anche i posti nelle gallerie riservate al pubblico e alla stampa erano occupati. Il primo ministro, con una voce che cercò invano di controllare e così bassa da essere appena percettibile, disse: «Il governo è stato informato che la piazzaforte di Dien Bien Phu è caduta dopo venti ore di ininterrotti e violenti combattimenti».
Come ebbe pronunciato queste parole, la voce gli si ruppe e Laniel non riuscì a continuare. Il gelo scese fra i presenti. I deputati, il pubblico e i giornalisti, in un silenzio di tomba si alzarono tutti in piedi con la sola eccezione dei parlamentari comunisti.
La notizia del disastro planò sulla Francia sconvolta e sorpresa come una cappa di piombo.
Il cardinale Maurice Feltin, arcivescovo di Parigi, fece celebrare una messa solenne per i morti e i prigionieri di Dien Bien Phu. La televisione sconvolse il palinsesto dei programmi serali e le reti radiofoniche cancellarono tutti i programmi leggeri per sostituirli con programmi di musica classica, tra cui il Requiem di Hector Berlioz, l’unico requiem che le migliaia di morti di Dien Bien Phu siano riusciti a ottenere.
In una breve nota preparata dal comando di Hanoi si dichiarava che i difensori di Dien Bien Phu si erano coperti di gloria, suscitando l’ammirazione di tutto il mondo libero.Il prezzo di questa gloria senza macchia fu di 5.000 morti, 10mila prigionieri e una guerra perduta…
La guerra d’Indocina poteva considerarsi finita, anche se ancora, formalmente, continuava. Il corpo degli ufficiali del Corps expéditionnaire cominciò allora una drammatica via crucis, una passione di sofferenza e sacrificio che sarebbe passata al vaglio del feroce universo concentrazionario viet-minh, una scheggia d’inferno del ‘900 che nella pur vasta pubblicistica del genere, stranamente, non sembra avere mai ricevuto l’attenzione che merita.
Dopo l’apatia di quegli anni di guerra, la Francia fu colta da uno choc violento. Forse perché stava cominciando a capire che tutto un mondo era ormai avviato al passo d’addio.
Una crisi epocale alla quale, come si vedrà poi con la guerra d’Algeria, solo l’elemento militare aveva da proporre una soluzione efficace, equa e solidale.
Cosa hanno in comune la guerra francese in Vietnam con quella americana del 1955?
Tendenzialmente, la stessa incapacità della politica di comprendere le lezioni della guerra rivoluzionaria, in cui non esiste divaricazione tra l’elemento politico e quello militare dove, anzi, ogni problema politico deve essere affrontato in maniera militare e ogni aspetto militare deve essere trattato in ottica politica.
Alcuni militari statunitensi lo avevano capito. Da cui, la grande diffusione dei best e long seller di Jean Lartéguy sulle guerre d’Indocina e d’Algeria, I centurioni e i I pretoriani.
Alcuni di loro, anche molto autorevoli…, cercarono allora e anche in epoca successiva riferimenti operativi, militari e politici, in quell’esperienza. Ma questa è un’altra storia, a cui abbiamo dedicato uno studio per ora ancora inedito.